TFF 26/Fuori concorso: sogni, amori e vampiri PDF 
Alessio Gradogna   

L’edizione numero ventisei del Torino Film Festival, la seconda dell’era Moretti, ha confermato e se possibile ulteriormente rafforzato l’impressione che già lo scorso anno si era chiaramente percepita. Moretti e il suo staff sono riusciti ad ampliare gli orizzonti mediatici della manifestazione, e a moltiplicare il numero di spettatori, senza per questo snaturare le caratteristiche peculiari di questo evento, uno dei pochi realmente indispensabili nel panorama italico. Il festival di Torino è rimasto variegato, zeppo di visioni intriganti, e pur aumentando i propri orizzonti non ha affatto perduto la sua ammaliante aura cinefila. Di questo va dato pienamente atto a Moretti e al suo staff, nella speranza di una continuità d’intenti da perseguire anche nei prossimi anni.

Famiglie distrutte, rapporti fragili, figli scomparsi, relazioni traballanti, drammi amalgamati in una lacerante sofferenza interiore, microcosmi polverizzati da dover con fatica ricostruire: temi ben precisi e definiti, che sono ritornati spesso nei film in concorso in quest’edizione; dal bellissimo melò messicano Queimar Las Naves, passionale e carnale in pieno stile Almodovar, al piccolo struggente film sloveno We’ve Never Been to Venice, dal rigoroso e penetrante francese Non-Dit, che ci ha ricordato il cinema della perdita di Lodge Kerrigan, al soffocante e cacofonico Prince of Broadway, passando per la corrosione intima dell’australiano Bitter & Twisted, fino ad annegare nella follia inquietante del tedesco Die Welle. La sezione “Fuori concorso”, invece, ha esposto al pubblico di Torino un ampio spettro di temi e significati, attraverso i quali il pubblico e la critica hanno potuto migrare per costruirsi un percorso ondulante e personalizzato. Tra i film che ci hanno colpito di più spicca senz’altro Dream, ultima fatica di Kim Ki-duk. Uno dei film più complessi del regista coreano, che prosegue con costanza nella sua bulimia realizzativa che lo porta a mettere in scena un film all’anno, se non di più. Questa volta l’autore di Ferro 3 e La Samaritana porta sugli schermi una storia carica di simbolismi e rimandi para-psicologici. Un uomo sogna, e contemporaneamente una donna sonnambula compie le azioni (spesso violente) che lui sta sognando. I due si trovano, e iniziano insieme un percorso iniziatico volto a eliminare questa sciagura, finendo per compiere un tragitto di sofferenza all’interno di se stessi e dei propri perduti amori. Quello di Kim Ki-duk è un inno all’amore assoluto, capace di elevarsi all’inverosimile fino a deflagrare nella pazzia. Un film ostico, che talvolta eccede sino a rischiare l’affondo nel ridicolo, ma che a lungo andare ammalia, grazie all’inarrestabile capacità visiva del regista, maestro della pulizia visiva, dell’immagine che diviene poesia, del lirismo formale che trascina lo spettatore in una dimensione onirica carica di dolcezza. Un film che a tratti assume i contorni del noir, ma che poi si risolve in una splendente storia d’amore.

Un amore a due che muta in un amore a tre, nel film che ha chiuso il festival, The Edge of Love di John Maybury. Parziale biopic dedicato alla vita del poeta Dylan Thomas, ambientato in Galles in mezzo ai bombardamenti dei tedeschi (siamo negli anni Quaranta), vede in realtà come assolute protagoniste le due donne della vita di Thomas, la moglie e l’amante, che negli anni cementano tra loro un profondo rapporto di amore e odio. Imperfetto, troppo prolisso quando non serve e troppo hollywoodiano quando meritava approfondimenti maggiormente autoriali, il film s’impreziosisce delle suadenti e affascinanti interpretazioni di Sienna Miller e Keira Knightley, le quali si confermano come due delle poche attrici giovani realmente interessanti del panorama attuale. Sul loro corpo, sui loro volti, nelle loro lacrime e nei loro sorrisi, scorrono la guerra, il sentimento, il desiderio d’appartenenza, e la difficoltà di una vita trascorsa in un ruolo mai abbastanza definito. L’amore a tre trasla poi nuovamente in un amore a due, un amore di bambini, nell’unico horror presente a Torino (e questo è l’unico appunto da muovere alla direzione del festival), Let The Right One In, dello svedese Thomas Alfredson. Ambientato nella bianca neve e nei plumbei cieli di Svezia, è una favola dark ad altezza di bambino. Lei, dodicenne costretta ad uccidere gli abitanti del villaggio e a nutrirsi di sangue per sopravvivere, lui, coetaneo “normale”, piccolo e fragile, vessato dai compagni di scuola. I due si trovano, si studiano, si avvicinano con l’imbarazzo tipico di quell’età, e alla fine si legano, pur nella loro terribile diversità. Rarefatto, intriso di un’accecante oscurità, triste, melanconico, giocato sugli sguardi e sui silenzi, per certi versi disperato, il film di Alfredson prende le distanze dall’imperante moda cacofonica del mito vampirico post-moderno, e pare tornare al passato. Profuma di polvere, di sentimenti antichi, di un cinema ormai desunto, recupera alcuni stilemi iconografici di marca herzoghiana (il vampiro sofferente per la propria condizione, che si nutre di sangue solo per la straziante fame), e risulta estremamente affascinante.

Amori a due, amori a tre, amori come simboli di storie che guardano al paesaggio devastato (New Orleans Mon Amour, di Michael Almereyda, ambientato sulle ceneri dell’uragano Katrina), come corruzioni di ansie mai sopite nel tempo (Night and Day del coreano Hong Sangsoo), come microcosmi dilaniati dall’orrore della tragedia (Katyn di Andrzey Wajda, portavoce del massacro sovietico ai danni dei polacchi a partire dal 1940, o lo stesso The Edge of Love). Piccoli grandi amori di riavvicinamento e allontanamento, come in Wendy & Lucy, di Kelly Reichardt, in cui la brava Michelle Williams intraprende insieme al proprio cane un viaggio on the road verso l’Alaska (una presunta Terra Promessa che tale non è), per poi scontrarsi con i morsi della fame, della povertà, della solitudine, dell’ignoranza umana, fino a dover abbandonare il fedele compagno. E ancora, amori teneri e soffusi, impossibili ma splendidi, capaci di regalare entusiasmo e vigore a una vita piatta e monotona (il bel Kurus, del malese Woo Ming Jin, storia di un adolescente che s’invaghisce della propria insegnante d’inglese).

L’ensemble del “Fuori concorso” torinese ha vissuto anche di eventi importanti, di film mainstream, dal biografico W. di Oliver Stone allo sperimentale Filth and Wisdom di Madonna, e di racconti più lievi o di più ampio respiro, dalla commedia grottesca Gigantic al thriller carcerario The Escapist, fino all’astrattismo documentario di Of Time and The City. Ma in questa sede ci piace di più immergerci nelle piccole storie, negli scherzi del destino e nel surrealismo quotidiano (di cui è stato interessante esempio Lake Tahoe di Fernando Eimbcke, minimalismo stranito a metà strada tra Kiarostami e Kaurismaki), nel gusto per la natura e per il paesaggio che con il loro potere ipnotico sovrastano la parola (il francese Mateo Falcone, e gli stessi Let The Right One In e Wendy & Lucy), e in tutti i sonetti d’amore, di volta in volta suadenti e disperati, sinceri e repressi, destinati al successo o (più sovente) alla sconfitta, che hanno costituito il cuore pulsante dei titoli di cui abbiamo sopra parlato. Tra sogni e vampiri, guerre e miseria, neve e ruderi, ancora una volta il Torino Film Festival ha saputo regalare giorni di ottimo cinema. Cinema vero.

 


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