Si vive al di fuori di Dio, a casa propria, si è io, egoismo. L’anima – la dimensione dello psichico – attuazione della separazione, è naturalmente atea. Con ateismo intendiamo così una posizione anteriore sia alla negazione che all’affermazione del divino, la rottura della partecipazione a partire dalla quale l’io si pone come il medesimo e come io (1).
L’aldilà messo in scena da Clint Eastwood in Hereafter è un luogo abitato da ombre, corpi informi avvolti nella nebbia del tempo che passa indifferente, ingiusto e crudele. Uno spazio incerto, illuminato da bagliori improvvisi e accecanti, troppo violenti per dare conforto. Ciò che sta oltre non è affar nostro perché è qui e ora che noi soffriamo, amiamo, respiriamo. Hereafter è un film sulla vita che diventa tale solo quando si libera dall’ossessione della morte, quando rinuncia alla pretesa di una totalità che evidentemente non appartiene agli uomini. È un testo molto complesso, dove ogni evento, anche minimo, accade per un motivo, per dire qualcosa. Un film teorico – nell’accezione migliore che può assumere questo termine – al quale è forse troppo difficile restituire la giusta dignità con qualche riga scritta dopo un’unica visione. All’interno della sua studiata e a prima vista semplice costruzione, ogni stacco della macchina da presa nasconde un pudore e una consapevolezza immensi. Ogni scelta nasconde una verità che l’immagine di Eastwood non svela ma rivela laicamente. Un’immagine “atea”, nella misura in cui decide di non voler andare oltre ciò che irrimediabilmente non potrà mai essere noto. Non ci salveranno dalla morte le ipocrite parole rassicuranti di qualche religioso, non ne mostreranno il mistero le conferenze di mistici occidentali o microfoni ultrasensibili. Non eviteremo la fine illudendoci di sapere cosa c’è dopo.
“Tutti questi anni e ancora non lo so”, dice George Lonegan, prigioniero delle sue visioni inquietanti. La voce è di Matt Damon, ma dietro si intravede nitida la sagoma di Eastwood: quelle sono le parole di chi, giunto nell’ultimo quarto della propria vita, decide raccontare la sua verità, personale e privata, la sola che sia concessa all’individuo. Perché Hereafter è anche e soprattutto un saggio sul potere del racconto, sulla sua forza chiarificatrice. L’unico dio, minuscolo e umano, è l’istanza narrante, capace di guardare ogni evento dall’alto, di organizzare storie che complicano la realtà delle cose senza il bisogno spesso pretestuoso di renderla ambigua o sfuggente. Eastwood è un autore fuori dal tempo e dalle sue mode passeggere, ma questo non lo rende “classico”. Il suo fare cinema – e in Hereafter è quanto mai evidente – si situa “altrove”, in quello spazio instabile che apparteneva un tempo a Griffith. Eastwood, infatti, proprio come il primo Griffith, non punta a “spezzare il cerchio ma a presentarlo così com’è, con la chiarezza di chi è sicuro che la verità del cinema sia la miglior garanzia di una giustizia necessaria e inevitabile. Non offre soluzioni, non è fatalista. Ha valori da difendere ma vuole che siano i fatti a parlare per lui. Ci propone […] storie che sembrano stanze adiacenti; ne descrive la topografia ma non indica la posizione delle porte […]” (2). Al pari di Dickens, ossessione “griffithiana” – e non a caso uno dei perni attorno al quale ruota il film – crea “una mitologia cosmica, ponendo con insistenza al centro del suo narrare ciò che mai potrebbe essere annichilato dal prevalente stato di cose” (3).
La realtà del contemporaneo, con la sua spaventosa e apparentemente casuale violenza, pervade Hereafter: dallo tsunami di Sumatra, alle periferie suburbane, fino agli attentati nella metropolitana di Londra. La morte abita oggi, come ieri e come sempre, il cuore e gli occhi degli uomini. Le tre vicende che lo compongono, nella conclusione si incrociano e si scontrano, guidate dalla volontà significante dell’“autore”. In questo incontrarsi sta il cuore pulsante del film e di tutto l’“ultimo Eastwood”: l’incontro con altri, relazione sociale ed etica, che diventa “momento ineluttabile di una presenza assoluta” e rivela così una “verità metafisica” (4) ma assolutamente terrena. Accettare altri come espressione di una possibilità per abitare questo mondo in maniera felice, viva e umana.
Note:
(1) E. Lévinas, Totalité et Infini, 1961, Ed. It. Totalità e infinito, Jaca Book, 2010 p. 57
(2) P. C. Usai, David Wark Griffith, Il Castoro Cinema, 2008 p. 115
(3) H. Bloom, The Western Cannon. The Book of The Ages, 1994, Ed. It. Il canone occidentale. I Libri e le Scuole delle Età, Bompiani, 2005 pp. 283-285
(4) E. Lévinas, Totalité et Infini, 1961, Ed. It. Totalità e infinito, Jaca Book, 2010 pp. 75-77
TITOLO ORIGINALE: Hereafter; REGIA: Clint Eastwood; SCENEGGIATURA: Peter Morgan; FOTOGRAFIA: Tom Stern; MONTAGGIO: Joel Cox, Gary Roach; MUSICA: Clint Eastwood; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2010; DURATA: 129 min.
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