In un mondo migliore PDF 
Viviana Eramo   

Dopo la parentesi americana di Noi due sconosciuti, Susanne Bier torna a girare in terra natia fotografando, nel suo ultimo film, paesaggi e luoghi mozzafiato. Presentato da noi in anteprima al Festival Internazionale del Film di Roma, dove  si è portato a casa i riconoscimenti di giuria e pubblico, In un mondo migliore arriva nella sale nostrane durante il periodo pre-natalizio. E, al di là di strategie squisitamente commerciali, la collocazione sembrerebbe non poco azzeccata, e non solo per il titolo, così pieno di buoni auspici. La pellicola, lo si capisce fin dai primi minuti, si configura come un racconto a tesi dal respiro etico, in cui la violenza, sopra ogni cosa, è un virus letale da debellare che si propaga tra grandi e piccini.

Susanne Bier, e il fido sceneggiatore Anders Thomas Jensen, narrano la storia di due ragazzini che stringono amicizia, accumunati da situazioni famigliari non facili. L’uno traumatizzato dalla morte della madre e in conflitto con il padre, l’altro vittima del bullismo dei compagni di scuola con tanto di genitori separati, sono entrambi al centro di un’umanità in cui al dialogo si è ormai sostituita la violenza, secondo la legge del più forte (fisicamente). Se Christian è in aperta polemica con il padre è perché pensa che egli si sia arreso, senza lottare, al triste destino della madre. La stessa arrendevolezza che il bambino intravede nel padre di Elias, quando non reagisce con violenza al manesco prepotente del villaggio. Eppure Anton, il padre di Elias, è un uomo coraggioso che passa il suo tempo in Africa come medico di campo, sullo sfondo di una delle tante guerre sparse nel continente. Qual è allora l’unità di misura del coraggio e della correttezza morale? Chi e cosa decide chi è il più forte? Tutto ciò si (e ci) chiede la Bier in un film che se evita di addentrarsi in rischiose generalizzazioni sociologiche, per rimanere viceversa attaccato ai suoi personaggi e alle pieghe delle loro vicende, finisce tuttavia per dare spazio a snodi drammaturgici fin troppo meccanici. La pecca strutturale della pellicola, così, non è tanto l’andamento a tesi, quanto il fatto che la sceneggiatura si limita ad esserne completamente schiava. E non è solo un problema di mancanza totale di effetti a sorpresa, quanto la sensazione che ad ogni azione corrisponda una e una sola reazione, repentina e trasparente. Per questo i momenti migliori del film sono offerti da quei rari istanti in cui, pur completando il proprio disegno, la Bier lascia che un gesto, un’inquadratura, un raccordo di montaggio evochi più che ridursi ad essere quasi didascalia. In questo senso, la scena più riuscita è quella che porta al linciaggio del guerrafondaio del villaggio africano, ripresa in campo lungo, alternata allo struggimento del nostro protagonista, in piena crisi di coscienza. Lì, più che altrove, la Bier centra il punto, raccontandoci senza spiegarlo, come la violenza non può che generare altra violenza e dove la nobiltà d’animo si misura con la capacità di resistere a questo perverso automatismo.

La regista, ad ogni modo, conferma il talento e la predilezione nel porre l’attenzione sull’umanità e sulla complicata fenomenologia delle sue relazioni. E, qui, dal punto di vista formale, complice un’ottima fotografia, la Bier sembra aver compiuto più di un salto in avanti dai tempi di Dogma 95. Anche se forse, vista l’immutata impostazione melodrammatica del suo cinema, a questa nuova pulizia formale preferivamo la “spigolosità” dei film precedenti, di cui qui si conservano solo zoomate e primissimi piani ad effetto. Certo, il film, pur essendo lontano mille miglia dalla forma del thriller psicologico, è in grado di istillare un’ansia crescente. E proprio qui sta il merito maggiore della Bier, che coglie un’urgenza universale e la inserisce per bene nel profondo tessuto esperienziale dei bambini e degli adulti che disegna. Siamo in Danimarca, ma in fondo potremmo essere dovunque, nel “progredito” Occidente, come nel “retrogrado” Sud del mondo.

TITOLO ORIGINALE: Hævnen; REGIA: Susanne Bier; SCENEGGIATURA: Anders Thomas Jensen; FOTOGRAFIA: Morten Søborg; MONTAGGIO: Pernille Bech Christensen; MUSICA: Johan Söderqvist; PRODUZIONE: Danimarca; ANNO: 2010; DURATA: 100 min.

 


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