Il castello nel cielo PDF 
Felicia Buonomo   

Proiettato per la prima volta sugli schermi del Sol Levante nel 1986, oggi in Italia in un’edizione completamente ridoppiata, Il castello nel cielo, del maestro nipponico Hayao Miyazaki (che ne firma soggetto, sceneggiatura e regia), ci offre una visione cinematografica avvincente, quasi geniale, dove la natura onirica della pellicola si esplica fin dai primi fotogrammi, pregni di citazioni letterarie, filosofiche e anche cinematografiche. Da un lato vi è il riproporsi del passato artistico di Miyazaki, il quale, preso spunto dall'idea dell’isola volante del terzo libro de I Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, recupera alcuni elementi dell’antecedente Nausicaä della valle del vento e da Conan, il ragazzo del futuro, edificando una storia paradigmatica della produzione dei disegni animati nipponici degli anni Ottanta. Dall’altro lato, osserviamo il dispiegarsi del futuro artistico di Miyazaki, con la descrizione di personaggi poi riproposti in altri suoi capolavori quali La città incantata o Il castello errante di Howl.

Già uscito per l’home video nel 2004, oggi possiamo godere dell’eleganza poetica de Il castello nel cielo grazie al felice connubio di distribuzione tra la Lucky Red e lo Studio Ghibli, che prosegue dopo aver portato nel nostro paese Il mio vicino Totoro e Porco Rosso. Benché la sceneggiatura, nei film di animazione, diventi elemento inessenziale in senso tradizionale, la trama de Il castello nel cielo sembra seguire le regole tipiche della scrittura cinematografica classica: personaggi e oggetti protagonisti si svelano immediatamente nella loro natura; è la pietra e il suo irrimediabile potere a rendersi protagonista, e immediatamente ne si svela la natura magica. Anche le ambientazioni ci parlano, narrandoci di una post-epoca che si confonde tra il passato e il futuro, con ingranaggi motoristici di epoche che furono e aeronavi di tecnologia ancora da inventare (quasi un neologismo post-bellico), per un risultato di - si perdoni l’ossimoro - anacronistico futurismo. Terzo lungometraggio del regista, il primo prodotto dallo Studio Ghibli, la pellicola narra la storia della giovane Sheeta, tenuta prigioniera dal cinico colonnello Muska a bordo di un’aeronave diretta verso la fortezza Tedis. Durante il volo, in una notte rischiarata dalla luna, l’aeronave viene attaccata da una banda di pirati guidata dall’intrepida Dola, che vuole impossessarsi del ciondolo che la ragazzina porta al collo. Questo ciondolo ha un valore inestimabile: permette di vincere la forza di gravità e localizzare la leggendaria isola fluttuante di Laputa, dove - si racconta - sono custoditi immensi tesori e un potere inimmaginabile. Sheeta riesce però a fuggire, finendo tra le braccia di un giovane di nome Pazu che, da quel momento, decide di proteggerla unendosi a lei nella ricerca dell’isola e dei suoi misteri. E il legame tra i due non è solo immediato (Sheeta consente, infatti, al giovane di indossare la sua preziosa pietra, quella che si rimanda di generazione in generazione, immediatamente e senza esitare), ma quasi antecedente: il padre di Pazu, infatti, era un esploratore, colui che aveva documentato l’esistenza di Laputa, il castello nel cielo, e che Pazu vuole in tutti i modi riscattare; e decide di farlo con Sheeta, che si scoprirà poi essere la regina della misteriosa isola fluttuante. È il gioco del destino (o delle coincidenze) che sempre si inserisce nelle storie di umanità di Miyazaki, dove l’innocente e pura amicizia diventa metro di misura, e che puntualmente ci fa sognare, sia esso una bambina-pesce (come quella di Ponyo sulla scogliera) o un essere umano, non cambia l’assioma di umanità sottesa alle produzioni del maestro giapponese, il quale sembra non difettare quanto a moralità e coerenza, quelle che lo portarono a non ritirare personalmente l’Oscar assegnato a La città incantata come miglior film d’animazione, nel 2003, per non voler visitare un paese che stava bombardando l’Iraq.

Ma non è solo questo: Miyazaki ci ha da sempre abituati a riflettere sulle macro-tematiche legate alla natura, come quelle narrate in quel capolavoro che è La principessa Mononoke, il quale s’impernia sulla lotta tra i guardiani sovrannaturali che proteggono la foresta e gli umani, bisognosi di risorse, che questa foresta vogliono distruggere. Medesimo filo conduttore anche ne Il castello nel cielo, dove sono immaginifici robot (lo stesso “modello” peraltro che compare anche in un episodio di Lupin III) a salvaguardarne l’integrità; robot eleganti e violenti, ma solo con chi vuole impadronirsi di quella pietra magica che sembra ricordare il monolite di Kubrick, fonte della suprema conoscenza. E il riferimento al maestro autore di 2001: Odissea nello spazio non è casuale: l’animazione firmata da Miyakazi, infatti, sembra sposare i canoni tipici della grande cinematografia, seguendone il ritmo e “strizzando l’occhio” ai maestri dei classici. Ne Il castello nel cielo è l’istituzione per antonomasia a combattere la guerra ipotetica alla scoperta di Laputa, una battaglia condotta dal governo e con esso dall’esercito, che sottende l’esigenza incondizionata di potere, tanto che improbabili pirati diventano gli alleati dei cosiddetti buoni. Ma è solo su un universo parallelo che il bene diventa normalità e la guerra un’inspiegabile pratica. Avventura, scienza e filosofia, dunque, si fondono in quest’opera decisamente poetica, dove mai viene lesinata l’attenzione al dettaglio, capace di affascinare giovani e meno giovani, arricchita da un adattamento italiano ben curato ad opera di Gualtiero Cannarsi, che forse forza troppo il linguaggio (decisamente forbito per un vasto pubblico), ma che proprio per questo ne eleva la cifra stilistica.

Titolo originale: Tenkû no shiro Rapyuta; Regia: Hayao Miyazaki; Sceneggiatura: Hayao Miyazaki; Fotografia: Hirokata Takahashi; Montaggio: Yoshihiro Kasahara, Hayao Miyazaki, Takeshi Seyama; Musiche: Joe Hisaishi; Produzione: Nibariki, Studio Ghibli, Tokuma Shoten; Distribuzione: Lucky Red; Durata: 124 min.; Origine: Giappone, 1986

 


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