JFK e la doppia perdita di innocenza di una nazione PDF 
Piervittorio Vitori   

C’e del marcio, negli Stati Uniti. Sicuramente ce n’è sulla direttrice Dallas-New Orleans-Washington, la pista che il procuratore distrettuale Jim Garrison batte nel tentativo di far luce, a tre anni di distanza dall’omicidio di Kennedy, sulle troppe perplessità suscitate dai lavori di quella commissione Warren che dettò la verità "ufficiale": Lee Harvey Oswald come unico responsabile ed esecutore. Ci sarebbe del marcio, secondo un ampio settore della critica americana, anche nell'opera di ricostruzione condotta da Oliver Stone, il cui JFK avrebbe il torto principale non tanto di non giungere ad un'alternativa solida, conclusa e credibile, quanto di portare avanti la propria teoria complottista (correità di mafia, esuli cubani anticastristi, CIA, FBI, vertici militari, colossi industriali, lo stesso presidente Johnson) ricorrendo ad eccessive libertà e manipolazioni. Alcuni anni fa, il critico del Chicago Sun-Times Roger Ebert ricordò di essere incorso nelle ire del celebre giornalista Walter Cronkite quando, all'uscita del film, si era schierato con quanti lo lodavano: Cronkite lo aveva accusato di aver incensato quello che in realtà era un miscuglio di invenzioni e fantasie paranoiche, che non rispettava alcuna delle più elementari regole del corretto giornalismo. Ebert ebbe buon gioco nel replicare che un reporter e un critico cinematografico non cercano le stesse cose in un film: il primo guarda ai fatti, il secondo persegue le emozioni (1).

E proprio le emozioni sono l'obiettivo cui punta Stone, più che ad una soluzione del caso certa e precisa, che peraltro non possiede. JFK è sicuramente un whodunit (o, direbbe il deus ex-machina rappresentato dal mr. X di Donald Sutherland, un whydunit), ma non è questo il suo carattere principale. Quello che maggiormente interessa al regista, come la critica nostrana sembra aver compreso meglio di quella statunitense, è mettere in scena il tormento emozionale di un soggetto – il popolo americano – che fronteggia la perdita dell’innocenza. Un tema certo non nuovo per Stone: in Nato il 4 luglio era incarnato nella parabola di Ron Kovic, in Platoon era addirittura la tag promozionale ad esplicitarlo ("La prima vittima della guerra è l'innocenza"). In realtà c'è anche un terzo film a cui, in questo senso, è pertinente accostare JFK: ed è The Doors. L'accostamento è dato dal fatto che in una pellicola che pure per argomento è distante dalle altre citate la perdita è simboleggiata da un'unica immagine di morte: nel film su Morrison era quella dell'indiano visto da Jim bambino ai bordi di una strada; in JFK è quella di Kennedy, immortalata dalla cinepresa di Abraham Zapruder. Un'immagine, quella del colpo fatale, tanto più rilevante in quanto riassuntiva di una doppia perdita dell'innocenza: quella successiva alla morte di Kennedy e quella conseguente alla scoperta che il governo americano verosimilmente aveva mentito ai suoi cittadini. Intorno a questo nucleo tematico ed emozionale il film si espande in maniera ipertrofica, al punto che l'aggettivo migliore per definirlo potrebbe essere "eccessivo": tre ore di lunghezza; realtà, falsità e possibilità che spesso si succedono in un'incalzante alternarsi di formati e soluzioni cromatiche diverse; caratterizzazioni fin troppo nette dei personaggi. Pure, accettando la definizione, si correrebbe il rischio di fare un ulteriore torto al talento del regista. È fuor di dubbio che la pellicola si presti ad essere oggetto – come in effetti è stato – di interpretazioni opposte e giudizi discordi, al punto che un sarcastico Norman Mailer scrisse: "La prima cosa da dire su JFK è che è un grande film, la seconda che è uno dei peggiori grandi film mai fatti" (2).

Eppure, se la critica più benevola è giunta ad ammettere i difetti del film subordinandoli ai suoi pregi, pare che nessuno, o quasi, si sia arrischiato a concedere a Stone il beneficio del dubbio circa una precisa coscienza di questi "difetti", se non addirittura la volontà di servirsene. Tra le critiche mosse a Stone, infatti, c'è quella, cui si accennava, relativa alla caratterizzazione dei personaggi. In particolare, risultano deformati rispetto al dato reale i due "buoni": Jim Garrison e lo stesso John Fitzgerald Kennedy. Il primo fu da molti ritenuto un cinico opportunista, un cacciatore di celebrità che non si era fatto scrupoli a fabbricare indizi e manipolare la realtà pur di piegarla alla propria interpretazione del caso (caratteri su cui il film si sofferma solo per il tempo necessario a Costner per smentire in tribunale); del secondo è quanto meno dubbia l'intenzione, che secondo il film sarebbe il movente ultimo del complotto, di disimpegnare gli USA dal pantano vietnamita. Eppure, il Kennedy presentatoci in quel prologo che ne ricostruisce il triennio scarso di presidenza è una figura certo più chiaroscurale di quella menzionata poi nel corso della narrazione: ne sono un buon esempio i riferimenti alla Baia dei Porci, alla vittoria elettorale di stretta misura, ad un consenso popolare non così diffuso. E, si noti, se c'è una porzione coesa di film che tecnicamente chiama in causa la forma documentaria – appellandosi quindi, presso il pubblico, alla fattualità storica – questo è proprio il prologo.

Non dispone di un alibi simile Garrison, personaggio costantemente ammantato di una "maniera hollywodiana" fin troppo evidente. Da un lato – come evidenziato già all'altezza del suo primo ingresso in scena sia dall'abbigliamento sia dalla caratterizzazione di combattente (l’elmetto della Wehrmacht che tiene in vista sulla scrivania, sorta di trofeo di guerra; i successivi accenni ai trascorsi nell’esercito) – è troppo idealista, troppo “cavaliere bianco”. Al punto che, nella scena in cui assiste in tv all’omicidio di Bob Kennedy, la regia propone una sovrapposizione quasi totale tra la sua vita e la sua missione: la tragedia che si abbatte sul senatore, con il televisore al centro dell’inquadratura e il carrello all’indietro, è preceduta da un senso di minaccia che in realtà investe il protagonista (l’ambiente in penombra, le finestre aperte con le tende che sventolano, il cane che guaisce). Dall'altro lato, Garrison corrisponde in modo troppo paradigmatico al modello del "progressista medio americano", come sembra volerci segnalare la descrizione dell'ambito familiare. Insomma, più che di un carattere dalle pretese realistiche si tratta dell’erede di un canone cinematografico che parte almeno dall'accoppiata Frank Capra/James Stewart, passa per il Gregory Peck de Il buio oltre la siepe (smaccata la citazione nella scena del dialogo con i figli sulla veranda) ed arriva fino a quell’Eliot Ness interpretato dallo stesso Costner ne Gli intoccabili. D'altro canto, anche l'evoluzione dei rapporti che si intessono intorno a lui richiama stilemi consolidati, facendolo divenire, da uomo d'ordine e leader di un gruppo (nella prima parte del film lo vediamo continuamente circondato dai suoi "gregari"), uomo contro l’ordine ed eroe solitario. A partire dall’incontro con mr. X, che gli dà lo sprone a perseguire la verità al di là della cortina di mezogne ed omissioni, Garrison subisce infatti un processo di progressivo isolamento: i media gli divengono ostili, l’establishment politico-giudiziario prende le distanze, la vita familiare va in crisi e i suoi collaboratori, incapaci di guardare in faccia la verità, defezionano. Occorrerà un'altra tragedia, analoga alla prima – il citato assassinio di Bob Kennedy – per confermarlo sulla giusta via e guadagnargli almeno il riavvicinamento della moglie, fin lì scettica. Tuttavia, è proprio questo suo carattere paradigmatico, questa “irrealtà” del protagonista (si noti anche l’enfasi difficilmente sostenibile di battute come “Forza, John, tieni duro!” o “Mi vergogno di essere americano”, oppure ancora la serie di citazioni da libro stampato infilate nell’arringa finale), che provoca l’impossibilità di un’identificazione totale tra lui e il pubblico, a poter paradossalmente giocare a favore della pellicola.

Perché, attenzione, in un ideale gioco delle parti tra soggetti interni ed esterni all'oggetto/film, Garrison non è, né Stone vuole che sia, lo spettatore: il personaggio di Costner richiama piuttosto lo statuto dello stesso regista, cioé di colui che, benché gli sia preclusa una visione chiara e completa della vicenda (come testimonia simbolicamente il ricorrente riflesso sugli occhiali, in particolare nella scena in cui apprende della morte di due potenziali testimoni e in quella in cui Beverly si rifiuta di deporre in tribunale), si sforza di far vedere agli altri. È anche per questo motivo, peraltro, che nell'economia del film suona stonata la sequenza del colloquio con mr. X, troppo didattica e con un Garrison relegato al ruolo di ascoltatore. Se dunque accettiamo il parallelismo tra regista e protagonista, chi c'è a rappresentare noi, il pubblico, nella diegesi? Nel finale della pellicola la risposta appare con una certa chiarezza: quella giuria cui Stone, per bocca di Garrison, si rivolge al termine dell'arringa con un "Dipende da voi" detto guardando in macchina. E se è vero che il personaggio di Costner cerca di supportare la sua tesi trovando e collegando tra loro quanti più fatti possibili, è altrettanto vero che il cuore della sua esposizione si appella all'emozione dei giurati nel vedere e rivedere il famoso quarto sparo: quello dell' "indietro e a sinistra" che Garrison ripete in aula mentre mostra alla giuria il filmato di Zapruder. Ha allora ragione chi (3) sostiene che probabilmente, tra tutti gli elementi diegetici, il vero nocciolo non risiede nella figura di Garrison, o in quella di Kennedy, e nemmeno nell'oggetto/evento "morte di Kennedy", bensì proprio in quello sgranato 8mm.

Perché possiamo apprezzare il progredire complesso e frammentato dell'indagine attraverso lo splendido montaggio di Joe Hutshing e del nostro Pietro Scalia, possiamo apprezzare il carisma di Kevin Costner, le ottime prove di Joe Pesci e Tommy Lee Jones, l'idea dell'omicidio di JFK come regicidio da tragedia scespiriana (più d'una le citazioni che Garrison fa in questo senso, soprattutto dall'Amleto)...Possiamo apprezzare tutto questo, ma non possiamo non considerare come proprio quelle poche immagini abbiano fatto prendere coscienza ad una generazione di americani della seconda perdita della propria innocenza e, allo stesso tempo, di come vedere di più non significhi automaticamente capire di più. Considerazioni su cui si basa quella produzione di senso emotiva che il regista persegue, e su cui si fonda quel ragionevole pessimismo contro il quale comunque l'idealista Stone pare ci sproni a batterci. In fondo, dipende da noi.

Note:
(1) cfr. Roger Ebert, JFK, in http://rogerebert.suntimes.com (29/04/2002)
(2) cit. in Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
(3) cfr. Desson Howe, JFK, in http://www.washingtonpost.com (20/12/1991)
 

TITOLO ORIGINALE: JFK; REGIA: Oliver Stone; SCENEGGIATURA: Oliver Stone, Zachary Sklar; FOTOGRAFIA: Robert Richardson; MONTAGGIO: Pietro Scalia, Joe Hutshing; MUSICA: John Williams; PRODUZIONE: USA; ANNO: 1991; DURATA: 188 min.

 


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