La fenomenologia della fine: il cinema di Béla Tarr PDF 
Nicolò Vigna   

Paolo Vecchi, nella sua monografia dedicata ad Andrej Tarkovskij, indicava Béla Tarr come uno dei più significativi eredi del grande cineasta russo. Con il suo “estremismo filosofico, esistenziale e stilistico” (1), il cinema di Tarr, infatti, radicalizza la riflessione tarkovskijana sul “tempo” come luogo di speculazione intellettuale e formale. I tre termini utilizzati da Paolo Vecchi - filosofico, esistenziale e stilistico - sono puntuali per inquadrare la personalità di Tarr. Nel suo percorso artistico, infatti, il regista ungherese compie parallelamente più riflessioni. Il suo cinema è al contempo un’indagine filosofica, che si richiama all’ontologia e alla fenomenologia novecentesche, ma anche alla crisi dell’illuminismo dell’Ottocento; esistenziale, in quanto è la condizione umana a essere sempre al centro del discorso tarriano; e, infine, stilistica, per la viva e costante sperimentazione che Tarr fa del mezzo cinematografico. Una parabola complessa, che Paolo Vecchi definisce, senza mezzi termini, come “estrema”. Sì, perché il cinema di Béla Tarr, con le sue durate eccessive, le sue scelte radicali, il suo cupo pessimismo apocalittico, è, sempre e comunque, un’esperienza estrema.

Con dieci film realizzati, la filmografia di Tarr si è chiusa recentemente con Il cavallo di Torino (A Torinói ló), vincitore nel 2011 del Premio della Giuria al Festival di Berlino. Il regista ha infatti dichiarato di voler abbandonare il cinema, perché stanco e provato da quest’ultima opera. In ogni caso, il suo percorso artistico - che si è potuto recentemente visionare nella sua interezza in una retrospettiva curata dal Museo Nazionale del Cinema di Torino - appare assolutamente completo e dotato di una forza e una coerenza interne assolutamente impressionanti. Dal suo primo film, Nido famigliare (Családi tuzfeszék), realizzato alla giovane età di 22 anni, Béla Tarr ha compiuto una incessante crescita artistica, trovando nel suo percorso preziosi collaboratori come lo scrittore Láskló Krasznahorkai e il compositore Mihály Víg, che lo hanno affiancato fino alla sua ultima opera. Pur realizzando film sempre più “diradati” nel tempo - sintomo sia di una difficoltà produttiva che di un impegno e di una perizia sempre maggiori nella loro realizzazione - oggi Béla Tarr ha raggiunto una notorietà e un “peso” culturali con cui si deve fare i conti.

Solitamente la critica divide la filmografia di Béla Tarr in due “periodi”: una prima fase, dallo stile ancora “realista”, che comprende il già citato Nido famigliare, The Outsider (Szabadgyalog), Rapporti prefabbricati (Panelkapcsolat), Macbeth e Almanacco d’autunno (Öszi almanach); e un secondo periodo, caratterizzato dall’incontro con lo scrittore Krasznahorkai, in cui lo stile tarriano si definisce completamente: il bianco e nero a discapito del colore; i lunghissimi piani-sequenza; i personaggi che si trasfigurano in figure simboliche e “assolute”. È questo il periodo dei grandi capolavori della maturità: Dannazione (Kárhozat), Sátántangó, Le armonie di Werckmeister (Werckmeister harmonia), L’uomo di Londra (A Londoni férfi) e Il cavallo di Torino. Questa divisione, in parte adeguata in quanto individua quel “punto di svolta” inequivocabile che è l’incontro con Krasznahorkai (autore del libro Sátántangó, a cui Tarr si ispira per il film), fa invero perdere quella preziosa rete di richiami che costituiscono la ricchezza e la complessità del cinema di Tarr. Non c’è forse, infatti, nello scapestrato Beethoven, protagonista di The Outsider, qualcosa del mite János de Le armonie di Werckmeister? Oppure, nel lungo piano-sequenza che chiude Rapporti prefabbricati un’anticipazione dei ben più famosi “tempi morti” di Sátántangó e Dannazione? I richiami sono molteplici e complessi, e spaziano dal campo formale a quello concettuale. Da un punto di vista prettamente filosofico, il cinema di Tarr è da sempre un mezzo per “catturare” la condizione umana, nei suoi continui fallimenti. Riuscendo, film dopo film, ad espandere questa analisi dal microcosmo ungherese (Nido famigliare, Rapporti prefabbricati), all’universale (Sátántangó, e soprattutto Il cavallo di Torino). In un percorso, non tanto netto, quanto sfumato.

Come abbiamo anticipato, a soli 22 anni Béla Tarr si afferma come giovane talento del cinema ungherese (2). Film come Nido famigliare, e soprattutto Rapporti prefabbricati, mettono in campo un cinema influenzato tanto dalla Nova Vlna cecoslovacca (in particolare il primo Miloš Forman), quanto dall’estremismo “realista” del primo Cassavetes. Béla Tarr, in questi film, realizza un cinéma-vérité in cui documentario e fiction si accavallano e si rincorrono continuamente. La macchina da presa indugia sui primi e primissimi piani, quasi a voler “scavare” nei suoi personaggi, tutti di bassa estrazione sociale. In questo primo periodo, Béla Tarr è già cosciente dei suoi intenti: denunciare l’eterna disperazione dell’uomo, bloccato - in parte volontariamente - in una condizione che non sopporta e che mal si adegua. Le giovani coppie di questi due film, una “schiacciata” dalla convivenza dei genitori nel claustrofobico appartamento, l’altra scossa dall’insoddisfazione del marito, e risolta pateticamente con l’acquisto di una nuova lavatrice, sono simbolo (e sintomo) di un male più grande, che si riferisce di certo all’Ungheria post-comunista, ma che guarda già al dramma dell’esistenza umana. Il tempo, tradotto in inquadrature particolarmente lunghe, si fa fin da subito l’elemento chiave per “scavare” bazinianamente nei personaggi e nella loro triste realtà. Non solo un mezzo per “permettere agli attori di recitare in continuità”, ma anche “per rivelare i loro sentimenti”, per trovare, nella loro interpretazione, “degli accenni di verità” (3). Certo, non c’è ancora l’orchestrazione di quei sontuosi piani-sequenza che ne faranno un erede, non solo di Tarkovskij, ma anche di Theo Angelopoulos - come nella sequenza dell’ospedale ne Le armonie di Weckmeister -, ma questa “fissazione” insistita della camera, intenta a  scoprire l’anima vera delle cose, è già ben presente anche in questi primi film. Pensiamo come la medesima macchina da presa “indagatrice” ritorni anche nel suo ultimo film, Il cavallo di Torino, in quello struggente primissimo piano del cavallo ormai consapevole, più dei suoi padroni, della fine imminente.

Altra peculiarità del cinema di Tarr è il bianco e nero. Uniche eccezioni sono The Outsider, Macbeth e Almanacco d’autunno. Il primo film, degli anni Settanta, descrive nuovamente la condizione magiara nella sua desolazione. Qui, il disadattato Beethoven - soprannome attribuitogli per via del suo talento musicale - è appunto un outsider che non riesce ad integrarsi, e che vive ai margini della società. Ma ciò che più conta, qui come nei film successivi, non è tanto la storia - che Tarr “scarnificherà” via via con i suoi film -, quanto gli ambienti, le situazioni, i sentimenti. È già presente, ad esempio, quella terra battuta dalla pioggia incessante, che diviene pantano, e che simbolicamente “immobilizza” i protagonisti, come nel successivo Sátántangó. Ma gli ambienti e le situazioni sono protagonisti soprattutto in Almanacco d’autunno, del 1984. Tutto recitato all’interno di un solo appartamento (descritto dallo stesso regista come un “labirinto”), e con soli cinque attori, il film è il primo passo verso il definitivo abbandono di una classicità narrativa. Nel film, i cinque personaggi - una sorta di famiglia “allargata” - ruotano tutti (per convenienza) intorno alla vecchia padrona di casa, in un gioco al massacro dove i sentimenti sono fassbinderianamente sostituiti da interessi economici. I décor si fanno opprimenti, simbolici. E Tarr non si lascia sfuggire l’occasione per sperimentare alcune inquadrature assolutamente anticonvenzionali, tra cui spicca una sorta di “soggettiva” in contreplongée del pavimento (utilizzata anche da Wim Wenders in Hammett: Indagine a Chinatown). Ma Almanacco d’autunno è anche il film che sancisce il sodalizio tra Béla Tarr e il compositore Mihály Víg. La musica, diegetica ed extradiegetica, si fa dunque elemento costitutivo necessario e determinante per la poetica tarriana, invitando lo spettatore alla contemplazione ieratica dell’inquadratura.

Tra Rapporti prefabbricati e Almanacco d’autunno si inserisce Macbeth, ambiguo prodotto televisivo in cui Tarr ha modo di sperimentare la complessità del piano-sequenza. Il film, infatti, è costituito da due sole lunghe inquadrature, la prima di 5 minuti, e la seconda di 67, in cui i personaggi escono ed entrano continuamente dal quadro. La steady-cam si fa armoniosa e fluente, e anticipa i sinuosi piani-sequenza che caratterizzeranno Il cavallo di Torino. L’incontro di Tarr con lo scrittore ungherese Krasznahorkai avviene nella metà degli anni Ottanta. Prima di poter tradurre sullo schermo Sátántangó, Tarr e Krasznahorkai scrivono assieme la sceneggiatura di Dannazione. Il film, in cui ritorna l’attore-feticcio di Tarr Miklós Székely, radicalizza ancora di più l’uso del “tempo” svuotato dall’azione, e costruisce una narrazione “a blocchi” in cui l’intreccio si disperde nella dilatazione delle inquadrature. Dannazione è nuovamente un’analisi della miseria umana, questa volta “filtrata” attraverso il genere noir, come sarà poi anche per il successivo L’uomo di Londra. Nel film, Karrer, uomo che vive isolato e disilluso, incastra il compagno della bella Vali, cantante di un pub, in un affare sporco, e approfitta della sua assenza per andar a letto con la donna. Denuncia poi l’uomo alla polizia, ma si ritroverà nuovamente solo a vagare per la città come un cane. La pioggia incessante, il bianco e nero contrastato e i dialoghi poetici diventano così i tratti distintivi (e definitivi) della poetica tarriana, qui ormai alla sua perfezione formale. Vent’anni dopo Dannazione, Tarr ritornerà sul terreno del noir con L’uomo di Londra, tratto da un racconto di Georges Simenon. I punti in comune con Dannazione sono molteplici. In particolare, la dimensione “scopica” del protagonista è il nucleo centrale di entrambi i film. Anche ne L’uomo di Londra, infatti, il protagonista è “un uomo che guarda”. Nel celebre incipit del film - tra i più “potenti” del cinema tarriano - il protagonista assiste da una finestra un fatto che determinerà la sua vita. La distanza tra l’azione e lo sguardo, lo scarto tra i due, diviene il nucleo fondamentale del film, che segna nuovamente lo “stallo” psicologico ed esistenziale del protagonista.

È però del 1994 il capolavoro acclamato di Béla Tarr, quello che gli darà notorietà e prestigio internazionale. Con Sátántangó, ancora una volta, il regista mette in discussione il suo cinema, e pone, questa volta, come assolutamente centrale, il discorso (ontologico, filosofico, filmico) sul tempo. L’allontanamento, iniziato con Almanacco d’autunno, dal “contingente” in favore dell’”universale” si fa, in questo film, definitivo. Con, in aggiunta, il forte richiamo al romanzo ottocentesco. Come scrive Gábor Gelencsér, il libro (e il film) segnano “il recupero della forma epica tradizionale e del ruolo del narratore, nonché l’originalità della concezione del mondo e il realismo visionario-magico-metafisico” (4). Un ritorno della forma “epica” del romanzo ottocentesco, di cui il film recupera anche certe atmosfere magiche (e metafisiche) che si rifanno a Emily Brontë e Fëdor Dostoevskij. Il film è dunque un ulteriore passo in avanti verso quella “metafisica del racconto” che raggiungerà il suo apice con Il cavallo di Torino. Anche per questo film, parlare della storia serve a ben poco. Nuovamente, a contare, sono le sensazioni, le situazioni. La piccola comunità protagonista è ancora una volta il simbolo di un’umanità colpita dall’accidia. Il falso profeta Irimias - “Geremia”, come nell’Antico Testamento, ma i connotati fisici lo avvicinano anche alla figura di Cristo - non farà altro che ingannare la popolazione, per condurla in una condizione ancora più angosciosa del presente. Nel film, Tarr porta all’estremo limite il concetto di tempo “intensivo” dell’inquadratura, con vette quali l’“eterna” sequenza del ballo in osteria. In più, Sátántangó complica la narrazione, mostrando spesso eventi già vissuti dallo spettatore sotto prospettive alternative. In un percorso narrativo che segue, appunto, la scansione del tango, la storia procede e retrocede continuamente, depistando così lo spettatore. Ma a contare è soprattutto il cupo pessimismo del film, che si traduce nell’emblematico finale. In quel nero assoluto che riempie lo schermo.

Il discorso filosofico intrapreso con Sátántangó sulla fine del mondo, viene ripreso ne Le armonie di Weckmeister, del 2000, e nel recente Il cavallo di Torino. Nel primo film si inserisce un elemento nuovo nella filmografia del regista ungherese: il protagonista, János, è infatti l’unico caso di personaggio “positivo” nell’universo tarriano. Una figura “innocente”, dotata di una “grazia” che manca a tutti gli altri personaggi di Tarr. János è il postino del paese che assiste impotente alla catastrofe annunciata dal losco Principe, un essere deforme che professa il caos e il disordine. I cittadini insorgeranno in una folle sommossa, repressa poi dalla polizia, che instaurerà un regime dittatoriale. János, traumatizzato da tanto orrore, diviene catatonico, mentre, nella piazza della città, la balena, l’attrazione con cui il Principe aveva tratto in inganno gli abitanti, rimarrà solitaria, con il suo sguardo senza vita sul mondo. L’animale è utilizzato da Béla Tarr in senso simbolico - così come sarà ne Il cavallo di Torino -, e si contrappone all’insensibilità dell’uomo. Come l’asino bressoniano di Au hasard Balthazar, anche la balena e il cavallo di questi film restano impotenti nei confronti delle azioni umane. Nel film, Tarr pedina gli spostamenti di János, prima e dopo l’annunciata distruzione della città, attraverso gli ormai consolidati piani-sequenza, che si strutturano per le vie del paese, costituendo la topografia filmica della città. János è nuovamente un “uomo che guarda”, ma non più corrotto come Karrer. Il suo interesse va al di là di questioni prettamente umane, come il sesso e il denaro. Come dichiara il regista “egli ama le persone, ama l’universo” (5). Ce lo dimostra una delle più commoventi sequenze del film, in cui János cerca di spiegare i meccanismi del cosmo agli ubriaconi della bettola del paese.

Con Il cavallo di Torino, infine, Tarr chiude la sua filmografia attraverso un film che rivaleggia con Sátántangó per pessimismo e profonda disperazione. Il film è tratto da un passo famoso della storia di Nietzsche, secondo il quale il filosofo, prima di impazzire, abbracciò un cavallo malmenato in una piazza di Torino. Ma il film di Béla Tarr si discosta dall’aneddoto per costruire una parabola filosofica al di fuori del tempo e dalla Storia. Tutto ambientato in una fattoria, Il cavallo di Torino racconta gli ultimi giorni dell’umanità dal punto di vista del padrone di questo cavallo, isolato con la figlia in un non-luogo dove non è più la pioggia, ma il vento incessante a corrodere gli uomini e le cose. In una struttura da “Genesi ribaltata”, nell’arco di sei giorni (come la creazione biblica) il mondo scompare. E, come in Sátántangó, il film si chiude con l’oscurità, in cui i due protagonisti aspettano la morte. Due personaggi “condannati” perché imprigionati in un’esistenza da cui non possono (o non vogliono) fuggire: emblematico a questo avviso è la sequenza in cui i due tentano di “uscire” letteralmente dall’inquadratura, ma sono costretti a tornare sui loro passi, e rassegnarsi alla fine imminente.

Con questo film si chiude la parabola artistica del regista ungherese. La risonanza della sua opera, dentro e fuori dal mondo del cinema, è tutt’oggi enorme. I suoi film sono proiettati all’interno di musei del calibro del MOMA, ribadendo l’importanza, non solo cinematografica, delle sue pellicole. Così come generazioni di registi, anche diversi tra loro, ne subiscono l’influenza. Pensiamo al cinema del talentuoso Lav Diaz, oppure a Gus Van Sant, che con Gerry ed Elephant ha omaggiato esplicitamente l’opera tarriana. Ma, citazioni a parte, l’opera di Béla Tarr vive, un po’ come quella del maestro Andrej Tarkovskij, in un suo spazio storico “a parte”. Pur sviluppatosi nella cosiddetta era del “postmoderno”, dove tutto sembra già stato detto e fatto, il cinema di Tarr continua testardo a porre (e porsi) domande disperate sull’esistenza. Con una lucidità e un fascino che forse non hanno eguali nella storia del cinema.

Note:
(1) Paolo Vecchi, Tullio Masoni, Andrej Tarkovskij, Il Castoro Cinema, Milano, 1997, cit. pag. 109.
(2) Tra le riviste italiane che per prime si occupano di Tarr è da segnalare soprattutto Cineforum, che puntualmente guarda con estremo interesse le opere di questo misconosciuto regista dell’Est.
(3) Angelo Signorelli, Paolo Vecchi (a cura di), Béla Tarr, Bergamo, 2002, cit. pag. 90.
(4) Ibidem, cit. pag. 11.
(5) Ibidem, cit. pag. 108.

 


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