Io non sono qui: l’identità e altri enigmi PDF 
Enrico Maria Artale   
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Io non sono qui: l’identità e altri enigmi
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Tuttavia resta possibile un ulteriore ordine di considerazioni, un livello di lettura o di interpretazione che permette di sviluppare meglio un discorso a partire dalla visione filmica. Per accedervi è necessario ritornare un po’ alle prime domande che ci eravamo posti di fronte ad Io non sono qui, e cioè quali fossero le ragioni per scomporre Dylan in sei personaggi, facendolo interpretare ad altrettanti attori. Il trasformismo dello stesso cantautore sembrava la giustificazione più plausibile e immediata, ma, avevamo avvertito, non era l’unica. Avendo indicato la complessità del metodo adottato da Haynes già in Velvet Goldmine e poi sviluppato nell’ultimo film, avendo per lo meno intravisto la molteplicità di implicazioni sociali e culturali in gioco l’ipotesi che il tutto si risolva ad un motivo puramente biografico appare eccessivamente riduttiva. Proprio in relazione all’ultima parte dell’argomentazione, quando facevamo riferimento all’interazione di differenti piani di realtà e soprattutto di piani temporali co-presenti, è possibile allargare gli orizzonti della questione dall’identità di Dylan alla concezione dell’identità dell’artista o dell’uomo in generale. Ne viene fuori un’importante riflessione: in prima istanza potremmo dire che l’identità si presenta come un nucleo assolutamente pluralistico ed eterogeneo. In questo senso pensare che i sei personaggi rappresentino soltanto sei periodi della vita di Dylan è fuorviante. Forse più che di personaggi è il caso di parlare di figure, che come tali sono i fattori, gli elementi che compongono la sua identità. Adesso, una volta compreso che realtà e tempi distanti scorrono parallelamente all’interno del film, possiamo indicare concretamente in cosa consistano questi elementi. Innanzitutto vi sono delle influenze, delle soggettività che hanno inciso con la propria arte e con la propria vita nel percorso di Dylan: è il giovane Arthur Rimbaud, interrogato dalla polizia nel suo abbigliamento ottocentesco. In questo caso non è tanto l’influenza specifica dello stile poetico quanto quella della vita bohemienne da artista maledetto, in cui Haynes vede abbastanza giustamente un’anticipazione delle rockstar (in Velvet Goldmine il legame univa Slade/Bowie ad Oscar Wilde, forse con maggiore pertinenza). Ma questa connessione è assolutamente azzeccata se vi si inserisce un termine medio, che il regista ha evidentemente voluto evitare perché troppo esplicito: sarebbe la figura del poeta gallese Dylan Thomas a fare da anello di congiunzione. Oltre ad essere indubbiamente debitore a Rimbaud da un punto di vista artistico egli è forse l’ultimo vero poeta maledetto, la cui esistenza violentemente autodistruttiva sembra ispirare direttamente molte delle rockstar degli anni Settanta. Da parte sua, Bob Dylan ne trarrà soprattutto ispirazione per le sue canzoni, nonché ovviamente, per il suo stesso nome. Image

Oltre alle influenze vi sono i miti, le leggende o forse gli archetipi della cultura americana. È il caso di Billy the Kid, personaggio vivo nella memoria storica degli Stati Uniti e ancor di più in quella del cantautore, che al giovane pistolero aveva dedicato tanto lavoro in occasione della colonna sonora del film di Sam Peckinpah, Pat Garrett e Billy the Kid (nel film recita lo stesso Dylan, che interpreta un personaggio il cui nome suona come una bizzarra conferma di tutto quello che abbiamo potuto scrivere: Alias). Fa parte dello statuto della leggenda il superamento della storia documentata, che insegna che Billy è stato ucciso da Garrett ancora molto giovane. Vi sono anche delle situazioni in funzione di analogie: ad esempio il ragazzino di colore, talento precoce e ammiratore di Woody Guthrie, ripercorre l’infanzia di Dylan, ma è anche una delle tante storie di ragazzi americani, dal destino assolutamente incerto. Altri elementi costituiscono delle possibilità inespresse, come il personaggio interpretato da Heath Ledger, che non fa il cantante ma l’attore, mestiere che lo stesso Dylan ha intrapreso con scarso successo; d’altra parte lo stesso personaggio dispone un differente legame, interpretando in un film una delle altre incarnazioni dylaniane: è un buon esempio di come vengano a crearsi dei circuiti pressoché inestricabili tra le varie determinazioni. Inoltre è sempre questa figura ad aprire lo spazio per la biografia privata, nella relazione con la moglie interpretata da Charlotte Gainsbourg, laddove però Haynes agisce nel modo contrario, ossia condensando nella stessa donna due figure femminili centrali nella vita di Dylan (Suze Rotolo e Sarah Lownds). Tra altri due personaggi, e tra altri due attori, si sviluppa un opposizione così netta da oltrepassare l’ipotesi di una trasformazione: è il caso di Jack Rollins/Christian Bale e Jude Quinn/Cate Blanchett (entrambe le performance, non solo quella dell’attrice, sono straordinarie) tra i quali la contraddizione è così estrema da dover pensare ad una forma schizofrenica, o meglio, a rispettivi alter ego. Non è da sottovalutare, infine, il fatto che il personaggio della Blanchett non è tanto quello che somiglia di più a Dylan, quanto, ed è una scelta, l’unico che gli somiglia (e neanche poco). Certo il cantautore era una strana creatura in quegli anni, non esente da una caratteristica androginia, ma che la massima aderenza si riscontri nell’interpretazione di una donna, non è un elemento accidentale: l’identità si situa e si riconosce nell’assolutamente altro da sé, nell’idea poco ortodossa (anche se certo non originale) che l’Io è tutto fuorchè una coincidenza con sé stesso.Image

Possiamo dunque concludere. Nel film il passaggio da una figura all’altra non avviene soltanto quando una di queste si trova di fronte ad un punto morto inaggirabile o quando sta maturando l’identificazione tra un attore e Dylan, ma anche e soprattutto quando lo spettatore sta iniziando a comprendere quella stessa figura. Non appena questa si rende afferrabile, concretamente individuabile e psicologicamente comprensibile lascia il posto ad una nuova figura, nuovamente da decifrare. Non è solo Dylan e non è solo il ruolo dell’attore che sfugge, che resta al di là di ogni tentativo di comprensione, ma è, in un orizzonte concettuale più ampio, l’Io stesso, un ente imperscrutabile e inconoscibile, che non fa che ingannarci ogniqualvolta crediamo di averlo in pugno, un ente talmente misterioso da lasciare aperti molti dubbi circa la sua effettiva esistenza. Io non sono qui è anche, come dichiara esplicitamente il titolo, un film che a partire dal caso Dylan mette in scena quell’inesauribile inganno cui porta l’idea stessa di un Io come nucleo dell’identità personale, soprattutto nella presente epoca storica. È ciò che ne fa un film estremamente ambizioso, non privo del coraggio che si confà ad un cinema difficile. Criticare unilateralmente questa difficoltà significa disconoscere la complessità costitutiva tanto del problema filosofico dell’identità quanto dei meccanismi della realtà mediatica. Criticare mediocremente questa ambizione significa privare il cinema degli obiettivi cui deve aspirare per natura e per anagrafe.

Note:
(1) Rick Moody, Col pianoforte ero un disastro. Intervista sull’arte della scrittura, minimum fax, Roma, 2003.



 


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