Pollo alle prugne PDF 
Giulia Palmieri   

Venti minuti. Questa la durata di Poulet aux prunes. Gli ultimi venti minuti. Tutto il resto è come se Mariane Satrapi e Vincent Paronnaud lo avessero aggiunto in fase di sceneggiatura, in un gioco d’accumulo a dir poco dissonante. Me li vedo attorno a un tavolo, galvanizzarsi a vicenda: “E se ci mettessimo un po’ di steampunk?” “Figo! Ma non dimentichiamo lo sketch da sitcom americana”. “E l’aneddoto della favola orientale?” “Ma quale, quello che ha ispirato Samarcanda di Vecchioni?” “Sì, proprio quello!” “E se nessuno se ne accorge?” “Beh restano comunque un cast da urlo e quella fotografia tipo Il favoloso mondo di Amelie che fa sempre gola alle giurie internazionali”. In realtà, sappiamo bene che non è andata così. Poulet aux prunes è la trasposizione live action di un’altra celebre graphic novel della nostra geniale Satrapi, solo che a differenza dell’antecedente Persepolis, la poesia qui si perde a metà strada. Il pubblico viene tramortito da continui sbalzi temporali, trascinato per i capelli da uno scenario all’altro, spesso da un Paese all’altro, anche se lo sfondo resta l’Iran, quell’Iran che Mariane ci vuole raccontare in chiave metaforica, non sempre riuscendoci. Tra gli anni Trenta e i Cinquanta di cose ne sono cambiate, ma la nostalgia per il passato non ferisce, non arriva, resta lì a mezz’aria, come la nuvola di fumo sospesa sulla tomba di Parvine, una madre troppo all’antica in questo film troppo moderno.

Ma andiamo per ordine: il celebre musicista Nasser-Ali (lo stralunato Mathieu Amalric, triplo Premio César) ha deciso di lasciarsi morire dopo che la sua odiata moglie (Maria de Medeiros) gli distrugge il violino durante un litigio. Per una settimana ripercorre, tra ricordi e deliri, i sentieri del proprio destino fino al giorno in cui l’abbraccio della morte non lo solleva da tutti i suoi rimorsi. Una trama piuttosto nichilista che risulta leggera nell’estetica e pesante nei contenuti. La pellicola vuole essere lo specchio del rimpianto progressista iraniano innanzi a un mutamento troppo radicale della propria Nazione, ma ce ne accorgiamo quasi per caso, quando il fratello del protagonista (Eric Caravaca) s’infervora contro gli americani e gli inglesi o quando, persino nei sogni, le fantasie sono popolate da miti stranieri (Sofia Loren in primis). Infatti, la miscela di atmosfere prima grottesche, poi oniriche, giustifica i cambi di registro (un po’ irriverente, un po’ solenne), ma non aiuta il pubblico a orientarsi, al punto da spingerlo a chiedersi cos’è che sia esattamente andato a vedere al cinema. Tutto questo fino al momento in cui i registi non si decidono a spiegare perché se quel violino è stato ormai distrutto non valga più la pena vivere. Appunto: venti minuti prima della fine.

La chiave di tutto è come sempre l’amore. Irane (che si pronuncia Iran mica per caso) è l’unica donna che Nasser-Ali abbia mai amato: è la sua dea, la sua musa, la sua ispirazione. Ma l’esistenza è ingrata e Nasser-Ali non è degno della sua mano. L’amerà sempre, in segreto e segretamente ricambiato, fino al giorno in cui, decenni dopo, non la ricontrerà per caso: ed è li che il pubblico s’aspetta la favola, il bacio, la lacrima. Invece no, la lacrima arriva, ma è anch’essa segreta, Irane finge di non riconoscere il suo amato (per il bene di chi?) e lui decide di porre fine ai suoi giorni e quindi al film, chiudendosi in quella stanza dove sappiamo che Azraël, l’angelo della morte, verrà a cercarlo. Frustrazione, esilio, distacco: Nasser-Ali è una specie di antieroe, un po’ vittima, un po’ carnefice; proviamo pena per sua moglie e per i suoi figli che finiranno più tristemente di lui (sì, ci sono pure i flashforward in questo film, una roba un po’ dickensiana, da Canto di Natale), ma nel finale non possiamo che empatizzare con il dolore che prova. Quando rifiuta la propria pietanza preferita (ed ecco il pollo alle prugne del titolo), capiamo che non c’è più speranza, che non c’è più piacere, che tutto ha perso gusto ed è grigio e privo di senso.

Un film che non poteva che essere francese, non solo nel cast (Golshifteh Farahani è l’unica attrice iraniana, se consideriamo Chiara Mastroianni e Isabella Rossellini francesi d’adozione), ma soprattutto nello stile: oltre ai colori saturi dello stracitato Jean-Pierre Jeunet (inevitabile non notarne l’influenza, d’altronde la fotografia è curata dallo stesso Christophe Beaucarne che lavorò in La cité des enfants perdus), si intravede anche un po’ di  Yann Samuell, che con quel suo Jeux d’Enfants (“Cap ou pas Cap?”) si era già divertito a rendere la magia dell’amore una magia tangibile, a tratti fantasy a tratti kitsch. Kitsch come la scenografia, spesso digitale, volentieri animata, una tentazione a cui Satrapi non ha saputo resistere, forse per giustificare il passaggio dalla vignetta al mondo reale. D’altronde, la scelta del cinecomic era l’unica possibile se si volevano far entrare in un solo storyboard ambienti surreali e fantastici, senza rinunciare ad attori in carne ed ossa. Una scelta coraggiosa, che però non convince, poiché perde clamorosamente innanzi alla sobrietà di una gemma come Persepolis, sebbene ne conservi le musiche, ancora una volta affidate ad Olivier Bernet. Che dire: speriamo che nel prossimo lavoro, Satrapi trovi il modo di ridonare a incanto e disincanto il giusto equilibrio.

Titolo originale: Poulet aux prunes; Regia: Vincent Paronnaud, Marjane Satrapi; Sceneggiatura: Vincent Paronnaud, Marjane Satrapi; Fotografia: Christophe Beaucarne; Montaggio: Stéphane Roche; Scenografia: Udo Kramer; Costumi: Madeline Fontaine; Musiche: Olivier Bernet; Produzione: Celluloid Dreams, The Manipulators, uFilm, Studio 37, Le Pacte, Lorette Production, Film(s), Arte France Cinéma, ZDF/Arte, Cinémage 5, uFund, Medienboard Berlin-Brandenburg, Deutsche Filmförderfonds (DFFF), Canal+, CinéCinéma; Distribuzione: Officine UBU; Durata: 93 min.; Origine: Francia/Germania/Belgio, 2011

 


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