L’opulente dolore di Luhrmann: un segreto in bilico tra amore e morte PDF 
Giulia Palmieri   

Sono innumerevoli le cose che a Luhrmann riescono bene, ma la capacità di collocare le sue storie tra Olimpo e spazzatura è senza dubbio la migliore. E non mi si fraintenda: i suoi film non si piazzano mai a metà strada. Stanno lassù o laggiù, un po’ come le ostriche: o ti piacciono o ti fanno vomitare. Personalmente non sono fan di alcun mollusco, ma adoro la Settima Arte perché ha quell’incredibile capacità di toglierti la sedia da dietro, proprio mentre ti stai accomodando. E non hai il tempo di realizzare: improvvisamente ti ritrovi per terra, disorientato, non sai bene come ci sei finito, ma è così e basta. E da lì non puoi che restare a guardare.

E come sono immense tutte quelle immagini, quelle storie, quasi come se lo schermo non bastasse. E non vi è più quarta parete, non vi è più nemmeno un confine tra ciò che è cinema, teatro, musical. Tutto è lì: se ti va di capire, resta, se no puoi anche andare. Nella Red Curtain Trilogy, Luhrmann insegue la propria epifania in modi diversi: prima la danza (Ballroom), poi la poesia (Romeo+Giulietta), infine il canto (Moulin Rouge!), sperimentando sempre nuovi modi per fare uscire di testa i critici. Come il suo primo protagonista, Baz non riesce ad incastrarsi nel canonico, vuole osare e ci prova attraverso coreografie voluttuose, sparatorie sullo sfondo di una dramma shakespeariano, rancore bohémien e rosso, tanto rosso: sangue, passione, odio, rabbia. A fungere da collante resta la musica: audaci (e talvolta insolenti), le colonne sonore di Luhrmann sono l’incanto, l’ingrediente segreto, il salvagente che spesso riporta a riva le trame finite fuoribordo. E poi piacciono: Radiohead, Garbage, The Cardigans, David Bowie, Fatboy Slim, Beck, per non parlare della Lady Marmalade di Christina Aguilera, Lil' Kim, Mýa e Pink, che vince persino un Grammy Award.

Fin qui tutto bene. Poi si scade un po’ nell’autocelebrazione: Australia è il secondo film made in cangurolandia entrato a far parte della storia grazie ai suoi incassi (il primo, ahimé, rimane Crocodile Dundee). Epico, sì, forse un po’ troppo. Ma il lieto fine qui c’è (anche se di finali ne vengono girati tre) e la critica storce il naso ancora oggi. Tanti i cinici, molti gli stroncatori, eppure Australia non fa paura al pubblico, che forse gli riconosce la capacità di ammaliare, ma soprattutto di incantare, offrendo quello scorcio di mondo che in pochi hanno il piacere di conoscere nel corso di una vita. Se poi analizziamo il quadro temporale, siamo ai limiti del calcolo matematico: non solo esso concede virtuosismi bellici e bombardamenti alla Pearl Harbor, ma riesce persino a parlare di aborigeni, generazioni rubate e rancorose faide. Insomma, un Via col vento dell’outback, forse eccessivamente lungo.

Cinque anni dopo, l’ennesima sfida: F. Scott Fitzgerald. Io non so se, quando Luhrmann si è messo dietro alla macchina da presa, pensava di girare Avatar (da cui ha ereditato il 3D) o un cerebrale remake del Gatsby di Jack Clayton. Fatto sta che se vesti un cast stellare con gli abiti di Prada e li metti a stappare champagne sulle note di Jay Z. in una perfetta cornice art déco, qualcosa deve pur succedere. E infatti qualcosa succede: il film apre il Festival di Cannes, tra perplessità e standing ovation. C’è chi lo trova un trionfo per gli occhi, chi un fallimento per l’anima; una bellissima scatola vuota, incapace di lasciare l’impronta simbolo della Lost Generation di Hemingway. Personalmente non sono d’accordo. Nell’universo circense del jazz, della corruzione e del sogno americano, gli anni ’20 di Luhrmann non sono poi tanto diversi da quelli in cui siamo sprofondati oggi. Incomunicabilità, ostentazione, fame di successo, ma soprattutto un tempismo assolutamente imperfetto: la storia di Jay Gatsby non è una denuncia, non è un viaggio di sola andata verso il capitalismo più sfrenato, bensì una vicenda personale, di intima solitudine, dove la ricchezza è un vezzo e l’amore un’utopia.

Abbiamo tutti una luce verde verso cui guardare, la sera, prima di andare a dormire. Ed è con quel malinconico orizzonte che ciascuno di noi deve fare i conti, una volta usciti dalla sala. Luhrmann lo sa. E mentre finge di concentrarsi sul superfluo, distraendoci con le sue feste e i suoi movimenti di macchina da capogiro, ci porta dritti a fare i conti con un passato che vorremmo certamente correggere. Scelte sbagliate, rimpianti, se, ma. Un’ode alle speranze infrante, alle bugie, ai silenzi tesi degli attori che con i loro occhi raccontano una sceneggiatura diversa, scritta sui toni di un’incolmabile disperazione. E alla fine sono loro, le parole immortali di Fitzgerald a rimanerci incastonate in gola, come un nodo, baluardo consapevole di una rivelazione senza tempo.

 


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