Il primo film americano del regista cinese Wong Kar-wai, My Blueberry nights”, girato completamente negli Stati Uniti e in lingua inglese, indaga ancora un volta l’animo ferito e illuso dei suoi protagonisti, mettendo a confronto personaggi che non sono altro che l’immagine speculare di loro stessi. Elizabeth, interpretata da una sorprendente Norah Jones, decide di intraprendere un viaggio che l’allontanerà dall’uomo che l’ha lasciata dopo cinque anni e che la renderà capace di affrontare il proprio dolore e i propri rimpianti. Il suo viaggio inizia nella stessa New York dove l’incontro con il ristoratore Jeremy(Jude Law) le farà ripercorrere la sofferenza per la perdita, spingendola ad allontanarsi dalle proprie fragilità e dalla possibilità di appoggiarsi ad una persona senza prima aver capito se stessa. Tutto questo davanti ad un piatto di torta di mirtilli con cui il giovane le fa capire che non possiamo rimanere legati a qualcosa che sicuramente ci piacerà, ma che a lungo andare non ci permetterà di scegliere qualcos’altro. A Memphis lavorando di mattina in una tavola calda e la sera in un locale, Elizabeth si imbatte in un poliziotto Arnie(David Strathairn) e alla ex moglie Sue Lynne(Rachel Weisz) che non riuscendo a risolvere le proprie incomprensioni hanno iniziato a bere pensando che ci sarà sempre il giorno dell’ultima bevuta o che si possa ricominciare a causa della propria fragilità. Affronterà, in Nevada, la solitudine e l’insicurezza di una giocatrice di poker, Leslie(Natalie Portaman), che si impone di non fidarsi di chi le sta di fronte proprio come nel gioco di carte, non solo come regola di vita, ma anche nel rapporto con il padre che ritiene solo capace di prendersi gioco di lei. Ẻ la profonda fiducia di Elizabeth negli altri, che spinge Leslie a guardarsi dentro,iniziando a percorrere una strada che forse la porterà a fidarsi di che le sta accanto. Elizabeth partecipa al dolore e al risentimento dei personaggi che incontra ascoltando le loro storie ma senza intervenire, torna indietro con più coscienza e avendo capito che non si può rimanere legati a ciò che non ci appartiene più domandandosi il perché delle cose ed aspettando forse che tornino da noi. Ẻ un po’ quello che succede allo stesso Jeremy con le chiavi che i clienti gli consegnano, aspettando che qualcuno le venga a riprendere, e che lui non butta per far si che quelle porte non rimangano chiuse perché non può essere lui a decidere il loro destino. Ma la verità è che, come i suoi clienti, anche il giovane ristoratore ha lasciato le sue -di chiavi- nella stessa boccia, per mantenere un legame con quello che era stato il sogno della sua vita e che ha paura di lasciar andare per non rendersi conto che orami è passato. Alla fine però lui stesso le riconsegna ai legittimi proprietari rendendosi conto che ormai si era aperta un'altra porta, quella con Elizabeth perché non sempre quando riesci ad aprirne una trovi chi avresti voluto: una moglie che ti ama soffrendo, un padre che non ti dà l’ascolto che desideri o una semplice sconosciuta che riesce a cambiarti. Il nuovo film del regista hongkonghese si presenta più lineare dal punto di vista narrativo rispetto alle opere precedenti inserendo dei leitmotiv caratteristici del suo cinema come i ralenti o anche la colonna sonora di “In the Mood for Love” Yumeji’s Theme in una versione per fisarmonica, ma la pellicola non arriva all’altezza espressiva ed emotiva dei film precedenti come “Hong Kong Express”o anche dello stesso “In the Mood for Love”. Troppi dialoghi per un regista che ci ha abituato a ridurre questi ultimi a mero elemento di contorno e a trasmettere sentimenti, emozioni attraverso un semplice sguardo o gesto. Ottima sicuramente l’interpretazione degli attori che appaiono ben in armonia e soprattutto di un’insospettabile Nora Jones.
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