Valzer con Bashir PDF 
Michele Segala   

È difficile in questi giorni scrivere di un film che racconta l’intervento armato dell’esercito israeliano nella Beirut di vent'anni fa. Difficile perché nell’etere viaggiano ancora le immagini dei morti di Gaza. Ed è altrettanto difficile, se non di più, non prendersi un lungo respiro ad uscita sala dopo aver preso visione di questo Valzer con Bashir, perché la Storia è una compagna scomoda da portarsi appresso, persino in un cinema. È quindi forse impossibile non rammaricarsi per tutte le occasioni perse, per tutte le lezioni non imparate dai governi, dai politici, da chi insomma la Storia la fa. L’impressione è troppo spesso che chi, per mandato elettivo, ha in mano le redini del gioco abbia più che altro giocato con le vite e coi valori delle persone che stanno da entrambi i lati della vicenda: Israeliani e Palestinesi, nemesi casuali e popoli specchi l’uno dell’altro (la persecuzione e la paura dei primi sembrano essere stati travasati nella persecuzione e la paura degli altri), hanno vissuto questi ultimi vent'anni in una perversa spirale di paci shoccate e smarrite per paure e politiche miopi (nella migliore delle ipotesi), mentre le proprie classi dirigenti hanno somministrato ai cittadini un oblio fatto di terrore indotto e di ciniche quanto omicide rappresentazioni di forza.

Un oblio che Valzer con Bashir vuole smascherare, scardinare, per fare spazio ad una memoria viva, responsabile: la memoria di un soldato che si trovava a pochi metri dal massacro di Sabra e Shatila, e che come tutti i suoi commilitoni nulla ha fatto per fermarlo. A più di venticinque anni di distanza da quel 1982, in cui le forze armate dello stato israeliano violarono i confini del Libano nel tentativo di spazzare via il pericolo rappresentato dalla presenza dell’OLP (che usava di fatto il territorio libanese come base strategica e operativa), il regista Ari Folman riscopre per caso, in un angolo della propria mente, il barlume di un ricordo di quei giorni a Beirut. Il resto è scomparso, ricacciato in chissà quale angolo della propria coscienza per chissà quali motivi. L’unica cosa sicura è che sa di essersi trovato a poche centinaia di metri da dove i falangisti cristiani libanesi massacrarono due interi villaggi di profughi palestinesi (Sabra e Shatila appunto). Ma cosa significa allora quell’immagine di un se stesso più giovane immerso fino alla cintola nel mare assieme ai compagni d’armi mentre delle luci rischiarano di un lugubre color giallo la notte di Beirut? La ricerca che ne nasce è un percorso che lo stesso regista (e quindi il suo alter ego animato nel film) traccia tanto nello spazio quanto nel tempo, tanto dentro quanto fuori dai confini d’Israele (alla ricerca dei vecchi compagni della guerra in Libano), ma soprattutto dentro la memoria. Individuale e collettiva.

Di tanto in tanto capita che il cinema e la Storia (o perlomeno la sua maltrattata cugina, la cronaca) si sfiorino. Solitamente ciò che accade in questi casi è che persino telegiornali poco lungimiranti nel campo della critica alla settima arte ci stupiscano con un servizio dedicato al film del regista mediorientale o asiatico o sudamericano (più raramente africano) di turno, magari persino esordiente o comunque misconosciuto (o che almeno così è per il grande pubblico). “La causa è nobile”, si era soliti dire una volta. “È per una buona causa” è però raramente un buono spunto per un progetto artistico, e ancora più raramente è una buona ragione per motivare la scelta di un film (oppure un’istallazione, un romanzo, o una canzone) da recensire. Il risultato in questi casi è, piuttosto inevitabilmente, tanto palese quanto controproducente: proprio quel tipo di cinema che con questi atteggiamenti sembrerebbe voler essere incoraggiato (un cinema d’essai, o comunque impegnato) perde gradualmente credibilità agli occhi delle persone che sul grande schermo trovano troppo spesso solo una vaga parvenza del cinema “di qualità”. Si ritrovano invece davanti magari un film tratto da “una storia drammatica e vera”, che anima le serate di cineforum di morettiana (e temuta) memoria o le preoccupazione didattiche di professori in cerca di un tema con cui sensibilizzare i propri allievi piuttosto che i pensieri di un pubblico meno incline a giustificare ogni pecca sull’altare di un fine più alto, didascalico.

Fortuna vuole che la distribuzione italiana questa volta ci abbia risparmiato questo rischio donandoci l’opportunità invece, con l’israeliano Valzer con Bashir, di assistere ad un film d’animazione che è una terapia psicanalitica costruita come un romanzo giallo, dove però, sciolto l’ultimo nodo, ciò che rimane non è il volto dell’assassino, ma la consapevolezza. Una consapevolezza nuda alla luce della verità (ancora una volta: collettiva e personale), e carica di quei valori che dovrebbero essere richiesti ad ogni membro dell’umana gente: comprensione, umiltà, sincerità. La sceneggiatura che si muove avanti ed indietro nel tempo della storia riesce nel compito di tenere tutto assieme come in un affresco mahleriano, dove nulla viene lasciato alle spalle (e quindi dimenticato), e dove ogni elemento diviene parte di qualcosa più grande di sé. Infatti, ogni ricordo in Valzer con Bashir, ogni azione militare rivista con gli occhi della memoria (per quanto assurda o disumana possa apparire) contribuiscono non tanto a narrarci quanto avvenne in quell’estate di molti anni fa, ma piuttosto a dimostrare che il senso di responsabilità è un elemento fondamentale tanto per l’uomo quanto per ogni sistema di aggregazione sociale che si rispetti. Non ultimo, lo Stato.

Da un punto di vista più strettamente tecnico, avendo già detto della scrittura attenta a tessere assieme ogni parte del racconto (e dei racconti), il compito riuscitissimo di tenere sempre lo spettatore interessato alla giustapposizione di flashback dal passato e meditabonda quest psicologica è assolto anche da un uso di mezzi tipici del documentario postmoderno: si veda il rock fracassone che accompagna una farsesca discesa di un tank israeliano tra le vie di un piccolo centro libanese, oppure il racconto del ricordo trasfigurato in sogno della sirena che ammalia il giovane militare, oppure ancora la musica elegiaca che ammanta di irrealtà un attentato ai danni di un battaglione israeliano in mezzo ad un frutteto. L’utilizzo quindi della musica con effetto di straniamento (non troppo distante da quel che fa talvolta Michael Moore), una struttura narrativa stratificata ma che, ancora una volta come in un giallo, spinge verso un disvelamento, la scelta ben oculata di racconti di guerra mai banali ma anzi spesso sorprendenti: tutti questi elementi fanno di Valzer con Bashir non solo un eccellente film, ma anche uno dei migliori film sulla guerra in assoluto, perché  armato di una capacità che si incontra raramente quando si trattano temi così complessi e moralmente impegnati al cinema. Quella di saper raccontare una storia senza tranelli sentimentali ad effetto per lo spettatore, ma soprattutto senza moralismi o intenti didascalici.

TITOLO ORIGINALE: Waltz with Bashir; REGIA: Ari Folman; SCENEGGIATURA: Ari Folman; FOTOGRAFIA: David Polonsky; MONTAGGIO: Feller Nili; MUSICA: Max Richter; PRODUZIONE: Francia/Germania/Israele/USA; ANNO: 2008; DURATA: 90 min.

 


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