Lost in Translation. Quindi Sofia Coppola e il New Indie Cinema PDF 
Andrea Bernardini   

I miei film parlano di donne alla ricerca di una loro identità e di una loro strada come adulte.
Sofia Coppola

Un uomo. Una ragazza. Un incontro casuale sotto le luci della grande capitale giapponese. Tokyo, emblema della metropoli surreale e aliena per noi occidentali. Bob e Charlotte annoiati in un lussuoso Hotel e diversi sotto ogni punto di vista, scopriranno di poter passare indimenticabili momenti insieme. E forse innamorarsi. Forse. Questo a grandi linee Lost in Translation, il secondo film di Sofia Coppola, figlia d’arte del grande Francis. Il suo esordio, Il giardino delle vergini suicide, era stato applaudito dalla critica come un piccolo gioiello. A dispetto di chi la aspettava al varco pronta a stroncarla, questo film è una grande prova di maturità che dimostra le indubbie qualità e il grande talento della giovane e brava Sofia. Lost in Translation è un film cui va stretta qualsiasi etichetta di genere. Potrebbe essere un film sentimentale, ma l’amore e l’attrazione fra i due protagonisti rimane astratta, persa in quel sussurro finale non rivelato. Fuori quindi da ogni schema, la regista liberatasi da ogni influsso paterno e mainstream, narra una storia minimale ricca di significato.

Bob (Bill Murray) è un famoso attore arrivato in città per girare una pubblicità, Charlotte (Scarlett Johansson) è una ragazza sposata da poco che ha seguito il marito fotografo. Tutti e due passano interminabili e solitari momenti in quella prigione dorata che è il Park Hyatt Hotel. Partendo da quella apatia che colpisce chi è in viaggio per lavoro, quella noia mista a nostalgia che porta inesorabilmente le persone a fare i conti con i propri pensieri e la propria condizione. E Bob e Charlotte si trovano in quella situazione per motivi diversi. Sofia Coppola fa scontrare questi due universi paralleli senza fragore, un incontro come tanti senza interesse che si trasformerà nel miglior antidoto per uscire dal limbo della solitudine. E’ un film dai toni abbassati, minimali si potrebbe dire, recitazione sotto le righe, lunghe pause senza battute e accumulo di scene descrittive. Tutto in sintonia con la strana relazione che si viene a creare davanti ai nostri occhi. Bob è in un periodo di depressione, sente il bisogno di staccare da sua moglie e le persone a casa. Charlotte è una giovane ragazza sposata con un fotografo di moda, catapultata in un mondo lontano da lei, si sente irrimediabilmente sola e dubbiosa sul suo recente matrimonio. Sono diversi per età, estrazione, prospettive e situazioni sentimentali. Uno sguardo in ascensore, un sorriso durante una serata, e infine una notte insonne per entrambi li fa rincontrare al bar dell’hotel. Un whisky per lui, un vodka tonic per lei. Un’inaspettata complicità, lei è pungente mentre lui è sarcastico, tutti e due non sanno come impiegare il proprio tempo. Inizia un’amicizia, che cresce e diventa qualcosa di più. In un qualsiasi altro film americano i due avrebbero dato sfogo ad una travolgente passione per poi innamorarsi e scappare insieme. Ma qui no, la sensibilità della Coppola è pregevole e mai scontata. Bob e Charlotte si amano in quel dato momento, consapevoli che fra di loro non potrebbe mai funzionare, vivono la loro storia fatta di piccoli gesti e sguardi complici tra un’uscita e un’altra. Un’intimità talmente forte che perfino lo spettatore si può limitare a osservare e fare congetture nell’attesa che la passione esploda. Un’attesa che si rivelerà inutile.

Questa la grande bellezza del film, il film ci parla di tutte quelle storie d’amore non sbocciate, perché non sempre c’è l’happy end o la tragedia. Ci sono anche storie come questa, due persone che all’infuori di quel dato momento non potranno mai stare insieme, Bob e Charlotte lo sanno e vivono con serenità quei momenti fino al sussurro finale a noi nascosto. Sullo sfondo l’onnipresente e ridondante Tokyo, con le sue luci, le pubblicità sui palazzi, i suoni delle sale giochi e degli incomprensibili programmi televisivi. Una vera co-protagonista nel film, speculare nei confronti degli spazi asettici e lussuosi dell’Hotel. La Coppola descrive la capitale giapponese con apparente superficialità. Giapponesi strani, e un poco matti, tutti bassi, impazziti per le nuove tecnologie e i videogiochi. Potremmo dire che è la solita visione da occidentale che non corrisponde alla realtà, ma è proprio questa l’operazione voluta dalla giovane regista. Quest’ultima ha deciso di ambientare il film a Tokyo dopo avervi soggiornato per diversi mesi, e la visione che ci vuole trasmette è quello stordimento e incomprensione di chi la visita per la prima volta. Quello sguardo da turista superficiale che non riesce a capire, e si accorge solo delle piccole stranezze. Il tutto per isolare ancora di più i due protagonisti dal mondo che li circonda. Sofia Coppola è una delle grandi promesse del cinema americano d’autore. Regista dal grande talento visivo, dimostra uno stile unico riconoscibile nei suoi tre film. Il giardino delle vergini suicide, Lost in translation e Marie Antoinette. Figura centrale è sempre la donna e le sue relazioni con il mondo esterno, che siano di tipo familiare, sociale o sentimentale; affronta con disinibita arroganza temi difficili assoggettandoli alla propria visione. Se il suo stile di ripresa è leggero ed invisibile, senza grandi piani sequenza o vertiginosi movimenti di macchina, il montaggio risulta essere sconnesso dalla narrazione classica e alle volte molto serrato vicino all’estetica del videoclip. (Il marito Spike Jonze, oltre che di film, è un famoso regista di videoclip... ndr). E in questo frangente la musica extra-diegetica assume una valenza importantissima.

In tutti i film della Coppola si può ritrovare il medesimo gusto per un certo genere musicale. Musica ridondante, completamente slegata dal contesto storico-scenico, e con un certo menefreghismo che sia Giappone, o la provincia americana o il settecento francese, i generi sono i medesimi: Post punk, new wave, dark ed elettronica. Sofia Coppola condensa le sue passioni musicali nella colonna sonora, facendola diventare uno dei motivi trascinanti del suo successo. Ma non si ferma solo alla musica ma alle volte anche l’intera vicenda è piegata alla sua visione e sensibilità. Come già visto per Lost in Translation il vero esempio lampante è il suo ultimo film, Marie Antoinette. Un tema storico, un personaggio famoso come la giovane regina di Francia Maria Antonietta, il set grandioso di Versailles, bellissimi costumi e una ricostruzione raffinata. Ognuno si aspetterebbe l’ennesimo film sul settecento asciutto e garbato, invece la giovane regista spiazza tutti e crea una Maria Antonietta icona pop dell’epoca. Vestiti sgargianti, lusso sfrenato, feste simil-contemporanee, il tutto condito da colori saturi e musica moderna a tutto volume. Senza dimenticare il famoso paio di Converse (!!!!). E’ quindi un cinema all'avanguardia, che si slega dal passato e la grande tradizione hollywoodiana, e anche di fronte a grossi budget (Marie Antoinette è costato 40 milioni di dollari.. ndr) si comporta da indipendente. Sulla parola indipendente bisogna però approfondire la questione. La definizione Cinema Indipendente varia molto da paese a paese, e soprattutto con il passare degli anni. Per fare un esempio i film che in America chiamano indipendenti hanno mediamente un budget superiore alle grosse produzioni italiane. Negli U.S.A. per indipendente s’intendono quei film non prodotti dalle Major. Ma con il passare degli anni le stesse Major hanno creato piccole filiali (es. Fox Searchlight Picture) per entrare in questo mercato. Le sempre più crescenti pellicole indipendenti, già a partire dagli anni novanta, iniziavano a riscuotere un successo commerciale impensabile. Alcuni film divennero veri e proprio cult come Le Iene di Tarantino o Clerks di Kevin Smith. E’ da questo contesto che arriviamo al nuovo cinema indipendente americano, quello degli anni duemila, chiamato Cinema Indie. Indie come contrazione del termine indipendente, ma anche ampiamente usato nella moda e nella musica moderna a significare un certo atteggiamento nei confronti della cultura di massa e del passato.

Cinema Indie per l’appunto, che vede fra i film di maggior successo in questi anni proprio Lost In Translation, insieme a I Tenenbaum ed Eternal Sunshine of the Spotless Mind. Con il passare degli anni diventati ormai veri e propri cult movies per tutta una generazione. C’è una linea comune in questa nuova corrente made in U.S.A. ed è ben riconoscibile nelle pellicole più fortunate. In primis c’è la voglia di parlare a un pubblico ben preciso: intellettuale in primis, ma che non sia troppo adulto e nemmeno adolescente. Temi come l’amore, la famiglia, il viaggio o la crescita sono trattati con meno retorica, alle volte non c'è una morale né un messaggio ben preciso, come ci ha abituato il consueto cinema americano. Si tende invece a narrare storie meno comuni ma più vicine alla nostra vita reale, alle volte anche fantasiose (Rushmore o Eternal Sunshine), mentre in altri casi condite da una leggera ironia persistente (Little miss sunshine o I Tenenbaum). I toni sono sempre abbassati, non si va mai sopra le righe, anche la comicità rimane sempre controllata, mantenendo il film in bilico fra diversi generi. Altri tratti comuni sono sicuramente: un soundtrack moderno e ricercato, una fotografia molto satura, essere in concorso al Sundance Film Festival, almeno un personaggio eccentrico nella storia e di solito c'è la presenza di Bill Murray o Jason Schwartzman. E se Wes Anderson è l’emblema di questo nuovo cinema sbocciato in America negli anni duemila, Sofia Coppola ne rappresenta la vetta autoriale che riesce a esprimersi anche nel cinema mainstream senza compromessi né svolte preoccupanti. Invece nel mezzo troviamo tutta una schiera di registi più o meno giovani, come: Noah Baumbach, Spike Jonze, Ivan Reitman, Todd Solondz, Miranda July, Michel Gondry e tanti altri. Registi che hanno all’attivo ottimi film, tutti indipendenti, sulle linee indicate precendemente. Anche se all’alba degli anni dieci qualcosa sta cambiando. Sono, infatti, passati sette anni da Lost in Translation, e anche questo non genere chiamato Cinema Indie, sembra perdere colpi.

Nel 2003 il film della Coppola vinceva premi, e aveva piacevolmente sorpreso spettatori di mezzo mondo, e insieme alle sopraccitate pellicole sembrava aver dato nuovo corso al cinema U.S.A., più libero e meno allineato con il passato e i nuovi blockbuster. Però come tutte le formule vincenti anche questa si è spenta con il tempo, si iniziano a intravedere film furbetti e di poca sostanza (Nick & Norah ne è un esempio), altri palesemente commerciali (500 giorni insieme) perdendo quell’aura di ribellione tipica dei film indipendenti. Restano gli autori affermati. Mentre il cinema indipendente è destinato a mutare ma non a cessare di esistere. Nell’attesa di nuovi autori, non possiamo che salutare con gioia la nuova controversa opera di Sofia Coppola Somewhere, a breve anche nelle nostre sale.

 


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