C’è del marcio in polizia. Dopo Gangsters (inedito in Italia) e 36, Quai des Orfèvres, Olivier Marchal ribadisce il suo punto di vista con ancor più cupo pessimismo, come solo chi conosce veramente quel mondo “da dentro” può fare (il regista è un ex poliziotto della sezione antiterrorismo di Versailles), con la delusione e il tormento di chi ha provato una passione che si è spenta. L’ultima missione, titolo italiano del più criptico MR 73 (il modello di una pistola usata dalla polizia francese negli anni Settanta), rientra in piena regola nei temi e nelle atmosfere del polar francese. In una cupa Marsiglia, fotografata in maniera livida e antinaturalistica, imbevuta di reminiscenze in bianco e nero da vecchio noir macchiate violentemente dal rosso acceso del sangue che ricopre i corpi nudi delle vittime di un serial killer, Daniel Auteuil veste alla perfezione i panni di Louis Schneider, poliziotto agli sgoccioli, come le bottiglie di whisky che si scola dal giorno del terribile incidente che ha coinvolto la sua famiglia. Ci voleva un regista arrivato da un fumoso corridoio di polizia per ridare vigore a un genere che sembrava morto trent’anni fa. Oltre a un’evidente “lezione francese”, Marchal sembra avere assorbito felicemente la “lezione americana” di un certo cinema di genere. Se nel dualismo titanico tra i due protagonisti di 36, Quai des Orfèvres è inevitabile l’accostamento con Heat di Michael Mann, nel suo ostentato nichilismo L’ultima missione può ricordare l’incursione nel noir del più radicale dei registi della nuova Hollywood, Sean Penn, che con La promessa ha disegnato il ritratto di un ex poliziotto macerato dai sensi di colpa e destinato all’autodistruzione. La storia si snoda lungo due linee narrative, una legata al presente (le indagini sulle tracce di un assassino seriale), una al passato che ritorna (Subra, un pericoloso criminale, colpevole anni prima di due brutali omicidi, viene rimesso in libertà per buona condotta e conversione alla religione). Entrambe vedono protagonista Schneider, che da un lato intraprende una caccia all’uomo non di sua competenza – sostituendosi ai colleghi troppo impegnati in episodi di corruzione, insabbiamento e collusione con la criminalità per far bene il proprio lavoro –, e dall’altro diventa l’angelo protettore e vendicatore della donna che aveva assistito, ancora bambina, al selvaggio massacro dei genitori per mano dell’inquietante Subra. Due struggenti figure femminili accompagnano la “missione” di Schneider: il commissario Marie Angéli (interpretata da Catherine Marchal, moglie del regista), in bilico tra voglia di giustizia e obbedienza cieca alle gerarchie della polizia, e la giovane Justine, disperata sopravvissuta alla terribile carneficina dei genitori, l’unico personaggio del film che riesce a trasformare la rabbia in un barlume di speranza. Poco importa se la trama gialla legata alle indagini sul serial killer è piuttosto semplice e banale e se i flashback legati all’incidente che vede coinvolta la famiglia del poliziotto risultano poco fluidi e a volte pleonastici: la grande forza del film risiede nella descrizione delle dinamiche di potere e conflitto interne al commissariato e nella loro interazione col personaggio principale. I poliziotti che ci lavorano sono avidi, pavidi, piegati alle logiche gerarchiche, e l’eccezione è rappresentata da un poliziotto maledetto e ubriaco, che dice di sé “non sono una brava persona”, ma alla fine è l’unico corretto tra i corrotti. Si percepisce verità in ogni angolo di cella e in ogni granello di polvere degli uffici di polizia. Il panorama nel quale agisce Schneider è desolante quanto credibile, così come credibile è l’abisso in cui sprofonda il protagonista. E anche nel crescendo di violenza di un uomo che ha perso tutto, tradito dalla vita e dal lavoro, l’empatia col protagonista supera l’esagerazione e l’eccesso che trasuda in ogni sua azione. La lettura religiosa è suggestiva, ma lasciata molto in superficie: Schneider dichiara all’inizio di volersi vendicare di un dio che l’ha tradito, e la vendetta viene infine compiuta, simboleggiata da uno schizzo di sangue su un crocifisso. Ma la visione di una religione colpevole (è significativo che Subra venga rimesso in libertà proprio a seguito della sua presunta conversione) è soltanto abbozzata. Il finale retorico in cui la morte lascia il testimone ad una nuova nascita nel modo più scontato e prevedibile che si possa immaginare non toglie senso, forza e rigore a un film che ha il coraggio, come pochi, di essere pessimista e senza speranza fino alle estreme conseguenze. TITOLO ORIGINALE: MR 73; REGIA: Olivier Marchal; SCENEGGIATURA: Olivier Marchal; FOTOGRAFIA: Denis Rouden; MONTAGGIO: Raphaëlle Urtin; MUSICA: Bruno Coulais; PRODUZIONE: Francia; ANNO: 2007; DURATA: 118 min.
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