The Aviator PDF 
di Alessio Gradogna   

C'era una volta Martin Scorsese. Un regista capace di portarci al di là del visibile, oltre l'immaginazione cinematografica pura e semplice, per farci vivere lacrime e dolori di un mondo alienato dall'egoismo sfrenato, in cui personaggi spinti (d)all'eccesso si immolavano sull'altare della rappresentazione corporea e istintuale per calarci nella loro più intima e disperata tragedia. C'era una volta Scorsese, il mentore di pellicole inamovibili nell'immaginario dello spettatore medio, così come del critico, così come del maniaco cinefilo; dai fili invisibili della sua mano si muovevano Travis Bickle, Bertha Thompson, Jake La Motta, Francine Evans, Sam Rothstein, e la macchina da presa disegnava sui loro volti e attorno ai loro corpi uno spettacolo visuale senza pari, avvolgendoli in una luce quasi eterna e dionisiaca, ultima rappresentazione del binario perfetto in cui saldare cinema d'autore ed afflati commerciali, al fine di ricavarne una miscela lineare e protetta da una corazza intoccabile. C'era una volta, e ora non c'è più. Scorsese, nato il 17 novembre 1942, ha 62 anni. Ed evidentemente si è stancato. Stancato di fare film meravigliosi acclamati dai critici, ma incredibilmente ignorati dall'Academy (Casinò, e non solo), di donare gloria e premi Oscar ai suoi attori (De Niro, Pesci) senza avere niente per sé, di essere una leggenda che non ha mai vinto niente, di essere autore. E, al colmo della stanchezza, è arrivato a The Aviator, film che concepiva da anni, in cui ha messo tutta la sua esperienza e maestria, per giungere finalmente, all'alba del terzo millennio, alla consacrazione definitiva di regista vincente.

Ed eccoci al punto: The Aviator è, sostanzialmente, un bel film. Ma c'entra poco o nulla con Martin Scorsese, e, soprattutto, è una tremenda e indefessa sviolinata di quasi tre ore nei confronti di Hollywood, dei suoi membri, del suo establishment, dell'Academy, degli Stati Uniti, di tutto e di più. Un omaggio al cinema degli anni '30 e '40, a Cecil De Mille e Frank Capra e Orson Welles, un atto d'amore per la settima arte, e un atto di sottomissione nei confronti dei grandi signori che dominano l'industria cinematografica contemporanea. Dov'è finita la ribellione intrisa di sangue e sudore che avvolgeva tutti i film del regista di Long Island, la capacità di raccontare storie segnate dal destino avverso che sapevano però toccare i punti più profondi del nostro inconscio e della nostra anima? Nella biografia di Howard Hughes non c'è nulla di tutto ciò.

Il film inizia nel 1927 con uno Hughes giovane, multimiliardario, intento a cercare disperatamente di concludere la lavorazione de Gli Angeli dell'Inferno, il film più costoso mai prodotto sino ad allora. La ricerca continua del miglioramento, dell'innovazione tecnica, del perfezionismo estetico, lo portano a dilatare spaventosamente tempi e budget di produzione, e ad accumulare porzioni sovrabbondanti di stress. Si prosegue poi con il suo trionfo, la sua ascesa negli ambienti dorati di Hollywood, la sua passione sempre più viscerale per gli aerei che lo porta ad imbarcarsi in imprese via via più folli e titaniche, e la storia d'amore con Katherine Hepburn. Si giunge al culmine della parabola, all'incrocio confuso di soldi, film, eventi mondani, nuove strade per l'aviazione e flirt passeggeri, e si vira lentamente verso il basso: i primi fallimenti, i nemici che bussano alla porta, il quasi mortale incidente, il processo intentato per aver dilapidato i soldi della cittadinanza, la solitudine, l'incipiente pazzia, il riscatto finale. Dal punto di vista strutturale il film, scritto da John Logan, non fa una piega. Tutto al punto giusto, tempi, agganci e raccordi, tutto perfetto. In pratica l'enciclopedia del biopic, una lunga ed estenuante matassa (e melassa) che scorre sullo schermo come una goccia di miele che scivola senza ostacoli fino alla gola: dolce e indolore.

Eppure manca una cosa semplice e fondamentale, che possiamo chiamare emozione, o forse passione, o forse partecipazione, o forse identificazione, o forse tutte queste cose insieme. Manca un cuore pulsante sotto i capitoli di una storia limitatamente interessante (in fondo di parabole del sogno americano ne abbiamo già viste tante e tante), e manca il tocco d'autore di Scorsese, che si è limitato a filmare Di Caprio da lontano, quasi con rispetto e pudore, in un angolo, senza alzare la voce, e senza impolverarsi le mani. Anche Gangs of New York, per quanto opera piena di difetti, incompiuta, sicuramente deludente in rapporto alle aspettative, pulsava comunque carne e sangue, impegno reale, e il desiderio mostrato senza pudori di raccontare una storia al meglio possibile, rendendola viva e non solo costruita con il cartone. Qui invece siamo nel pieno dell'anti-naturalismo, è tutto così bello e suadente da non poter essere vero, e scenografie, costumi, fotografia e montaggio luccicano come piccoli gioielli di platino incastonati in un collier bello da vedere e impossibile da indossare.

E poi c'è Leonardo Di Caprio, che svetta dall'alto del totale dominio narrativo, occupando con viso e corpo il 90% delle inquadrature, e qui, bisogna dirlo, merito a Scorsese, che ha preso questa eterno ragazzino e l'ha fatto diventare uomo, e finalmente attore vero. Di Caprio entra in perfetta sintonia con il personaggio, fuoriesce dal solito pacchettino di tre espressioni base, coglie le variazioni giuste per mostrarci gli entusiasmi, gli scatti rapidi e le manie compulsive di Hughes, dimostrando di crederci davvero e sfornando la sua migliore interpretazione di sempre. Bravo bravissimo.

In conclusione, chi era Howard Hughes? Personaggio controverso (molto più di quanto mostrato in questa pellicola), spinto da un perenne ed infantile desiderio di conquista e dominio, volto a esplorare i limiti e a superarli, e a spingersi come Icaro fino a toccare il sole e quasi morirne (la sequenza del terribile incidente aereo, forse l'unica veramente scorsesiana: coraggiosa, concreta, scomoda e realmente sconvolgente). Tra aerei, donne e cinema la sua vita si sviluppò tra eccessi e cadute, trionfi e sconfitte, germi e ossessioni, rivincite parziali o totali e una sostanziale rivalità con il mondo e le sue leggi. Sconvolto da questo turbine di emozioni e rincorse, Hughes visse gli ultimi trent'anni anni della sua vita chiuso in un hotel, escludendosi dalla società, senza più vedere nessuno, senza pensare a pulire e conservare se stesso. Visse come un vegetale, e poi morì, il 5 aprile 1976.

In The Aviator tutto questo non esiste. Viene accennato e poi lasciato andare. Ci si ferma prima, al 1947, si resta in acque pulite e limpide, sicure e alla giusta temperatura. Tutto profuma di buono, e anche di falso. Questa biografia non dice la verità, o la dice solo in parte. Ed è il più grande difetto che possa avere.

 


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