Scrivo con tutto il disagio che una posizione sentimentalmente distante ma lucidamente critica stavolta mi apporta ed anche col rimorso di violare questo mio intimo segreto gelosamente custodito per proteggerlo dall’assalto armentario di molti coetanei convenientemente cinefili che ne inquinerebbero l’innocenza relegandone la visione in mostruose serate “birrette e cannette”. E scusate l’impennata lirica che magari non tanto era richiesta ma non posso fare a meno di diventare battagliero ed entusiasta nell’approccio a un film di così grande e confusa portata emotiva da poter essere paragonato per genesi e forma allo scarabocchio di un bambino in eccitamento. Ha lasciato allibiti molti, il film, in preda a momenti di strana osservazione, alcuni critici e molti papà che non se la sono sentita di consigliarlo al prossimo: quell’isola di creature selvagge rifugge infatti ogni lettura allegorica moltiplicandola all’infinito e sperde ogni schema interpretativo in una cacofonia di grandi incoerenze, ora chiusa ora inafferrabile; le stesse immagini evitano di caricarsi di significati ulteriori, concepite come sono per non comunicare altro che la propria disarmante bellezza.
Il film non è “un trattato filosofico" (cit.) né “una sceneggiatura alla quale hanno lavorato troppe mani” (altra cit.) ma una rapsodia di pulsioni da partecipare, composta non illogicamente ma con logica bambina, in linea con il tema ed il pubblico che le appartengono, e come tale richiede la stessa resa incondizionata e schietta di un approccio infantile. Mi sono già macchiato del delitto di un tentativo di organizzazione razionale della materia, necessariamente raffreddandone il febbrile tessuto emotivo e allora il film m’è morto come uno di quegli animali che in cattività non vivono, perché è fatto di fili evanescenti che si svelano soltanto all’empatia. Spero che il senso di queste righe, che sento soprattutto come un regalo da ricambiare, non si perda se, dato quanto ho scritto sopra, affermo di non poter formulare giudizi critici che vadano oltre quanto chiunque potrebbe da solo constatare; in cambio però propongo un metodo: abbandonarsi senza riserve all’arte maieutica di Max, il piccolo protagonista, e dei suoi amici bestioni per risollevare un bambino dalle macerie di un’adulta cognizione di realtà. Il tempo allora scade tra sogni, affetti, delusioni e frustrazioni riesumati da visioni che funzionano in fin dei conti come tessere di puzzle diversi, cioè subito sopraffatte dallo sgomitare rissoso con altri stimoli in stato parossistico eppure ancora velleitari; e si sconta così l’impostazione ondivaga di un’istanza narrante che, alla stregua del piccolo Max, prende le cose con l’umoralità di un’intelligenza istintiva, metereopatica, soggetta all’intermittenza del cuore. Il momento è giusto per riporre in tasca il taccuino simbolo delle aspirazioni di dominio portate in sala e prendersi una pausa da regalare come atto d’amore al Grande Cinema al quale abbiamo consacrato la vita e che sempre ci ripaga a peso d’oro.
Ma attenzione detrattori dal grilletto facile! L’opera non è solo uno spettacolo pirotecnico, ma il suo valore artistico sta nel processo catartico che innesca e da conseguente illuminazione: davvero gli umori selvaggi sono furiosi alla base del temperamento di distinti signori e sono pronti a riaffiorare anche se al riparo di vie traverse. E per carità se questo non è bello, soprattutto se diventa, anche fuori dal cinema, la testimonianza di una passionalità accesa nel grigiore delle nostre città.
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