TFF 27/Concorso Lungometraggi: la solitudine, il viaggio e la poetica del flaneur PDF 
Simone Dotto   

Altro direttore, altro giro. Chi aveva tacciato le scorse edizioni di un eccessivo “nannimorettismo” (ritrovando in quasi tutti i film fuori e dentro il concorso i sintomi di una “sindrome da Stanza del figlio”, che portava in dote le immancabili tematiche da psicodramma famigliare) ora si prepara a fare i conti daccapo. Vuoi per una direzione dei lavori davvero meno invasiva da parte del nuovo arrivato Gianni Amelio, vuoi solo per una fortunosa casualità nella scelta delle opere, il ventisettesimo Torino Film Festival ha assistito ad un’effettiva (ri)apertura degli orizzonti, trovandosi ad ospitare pellicole ed autori lontanissimi fra loro sia per questioni stilistiche che per i contenuti trattati. Un dato che conferma la scarsa personalità del festival torinese in fase di selezione (anche stavolta tutte le opere, eccetto le italiane, arrivano da altre kermesse), ma che perlomeno libera lo spettatore da un’omologazione “intimistica” che cominciava a farsi pesante e gli offre uno sguardo allargato sulle nuove leve cinematografiche nella loro eterogeneità.

Cominciamo allora proprio dai pochi lavori rimasti a declinare il binomio casa/solitudine, spesso con risultati ed estetiche agli antipodi. Banale il caso del cinese Torso, dove uno spunto tutto sommato originale – la storia di una donna capace di avere relazioni soltanto con un busto maschile gonfiabile che nasconde nel suo appartamento – perde presto le tonalità di humour surreale per inseguire ovvietà e leitmotiv triti e ritriti (l’abbandono da parte di un uomo importante, le violenze del padre, il comportamento spigliato e speculare della sorella). Va molto meglio con La Nana, del cileno Sebastian Silva. Raquel è un’inquietante governante (dal fare hitchcockiano), da anni al servizio di una famiglia alto-borghese che ora medita però di affiancarle un’aiutante. Nel timore di essere sostituita, la donna farà di tutto per mantenere il proprio posto, svelando poco a poco, dietro un’apparente durezza, anche un profondo bisogno di radici e di appartenenza. Un film asciutto ma di forte sensibilità, interessante per la costruzione e per il ritmo che sa sostenere e retto per gran parte sull’interpretazione di Catalina Savedra, giustamente riconosciuta dalla Giuria quale migliore interprete femminile. A tutt’altro universo appartiene invece Aaron Schneider, già vincitore del premio Oscar per il miglior cortometraggio con Two Soldiers nel 2004 e ora al suo esordio su lungo con questo Get Low, un vero pesce fuor d’acqua rispetto alle tendenze fortemente d’essai che hanno contraddistinto la manifestazione. Malgrado si tratti comunque di una produzione indipendente, quella dell’eremita dal passato misterioso che organizza un funeral party per rivelare finalmente la verità sul proprio conto è una storia scritta e realizzata con tutta la professionalità e il mestiere che stanno di casa a Hollywood: basti dire che il “debuttante di lusso” Schneider schiera nel suo cast assi del calibro di Robert Duvall e Bill Murray, che i giurati hanno ritenuto di menzionare ex aequo come migliori attori (nel caso all’Academy si nutrissero dei dubbi sul loro talento).

Solitudine, però, è un tema che si sposa bene anche con il “via da casa”, nel non meno inflazionato tema del viaggio alla ricerca di se stessi. Agiscono sulla stessa impronta altri due concorrenti decisamente diversi quali Nord e Chi l’ha visto, rispettivamente la strada di un padre verso un figlio mai conosciuto e quella di un figlio già adulto verso il genitore che l’ha abbandonato molti anni prima. Non si tratta certo di due soggetti che brillano per originalità, ma nella realizzazione del norvegese Langlo si apprezza perlomeno il modo di trattare gli spazi bianchissimi della Scandinavia nell’economia di un romanzo di formazione a tratti ruffiano ma sempre piacevole (sul quale la Sacher dello stesso Moretti ha già messo le mani per la distribuzione italiana). Lo stesso non si può dire di Chi l’ha visto, primo film della tedesca Clauda Rorarius, che, nel ripercorrere il viaggio di Gianni nella terra del papà – fra fiction e documentario –, manca quasi tutti gli obiettivi che si pone, in primis quello di fissare uno sguardo sulla nostra Italia che vada al di là delle cartoline e degli stereotipi para-televisivi evocati dal titolo.

Ma mai come in quest’edizione, il TFF era stato vetrina su panorami e su geografie differenti, mostrando un “cinema di luoghi” che si sposta con facilità da un cantone del globo all’altro. È un’inanellata di belle immagini delle pianure della Mongolia quella presentata da Jalainur, film cinese che correda la storia di un vecchio ferroviere e del suo fedele aiutante con la magistrale fotografia di Zhang Yi. Una pellicola “visiva” alla quale pare tuttavia mancare soltanto la parola, e non tanto per la grande parsimonia nei dialoghi, quanto piuttosto per un proposito narrativo che, da soli, i quadri, per quanto suggestivi, non riescono a raggiungere. Dalla sua, Guy and Madeline On a Park Bench di Damien Chazell (Premio Speciale della Giuria) costruisce, attraverso uno studiato gioco di rimandi stilistici, un grazioso souvenir permeato di nostalgie musicali e cinematografiche. Anche se la storia d’amore tra la giovane Madeline e il trombettista Guy prende luogo in quel di Boston, gli insistenti riferimenti al jazz e al musical alternativo da off broadway, i paesaggi urbani e i cenni allo stile realista di Cassavetes e a quello minimalista di Jarmusch rendono quasi impossibile non pensare a New York e alla sua particolare produzione artistica come a una referenza indispensabile per l’estetica del debuttante americano.

Un posto a parte in questa nostra (immaginaria) sezione itinerante del concorso merita Le roi de l’evàsion, per via dell’assoluta singolarità della proposta. Nel rincorrere temi, storie e personaggi gargantueschi attraverso le pianure della Francia meridionale, il regista Alan Guiraudie (qui alla sua terza prova su lungo) sembra proprio non volerne sapere di rendere più “ordinata” la sua fiaba e la guarda scorrere così, lungo una struttura spampanata dalla quale è davvero difficile ricavare una lettura unitaria. Ne esce, almeno, ad una prima visione, un’opera grottesca, scombinata, talvolta comica e con l’innegabile pregio dell’originalità. Jonathan Auf der Heide, australiano fra i tanti presenti al festival, porta invece con Van Diemen’s Land un esordio molto “scritto”, girato con la minuzia che spesso possiede chi è stato licenziato di fresco da una scuola di regia (la VCA School of Film and Television di Melbourne). Il soggetto, ispirato all’avventura del prigioniero Alexander Pearce e dei suoi compagni evasi dalla colonia di Marcquarie Harbur, è superiore alla media per il coraggio della scelta e per l’interesse di molte trovate che permettono anche all’autore di ritrovare un suo personale “cuore di tenebra” fra i paesaggi incontaminati e selvaggi di una scurissima Tasmania.

Si torna all’Italia e alla sua storia con Santina. Il racconto, ispirato all’uccisione di una prostituta che Elsa Morante narra all’interno de La Storia, quasi sparisce e l’azione viene sezionata in un complesso lavoro su differenti tipologie di sguardo. In un elaborato giro di riferimenti e citazioni extratestuali, Gioberto Pignatelli scomoda, oltre alla scrittrice, De Andrè, Giovanna Marini, Pierpaolo Pasolini e la vista romana di Accattone, in un mosaico celebrale e talvolta ostico alla visione, ma che conta se non altro un interesse reale senz’altro più consistente rispetto a quello di un altro film dalle velleità artistoidi e sperimentali in concorso, lo scialbo You Won’t Miss Me, diretto da Russo Young e interpretato da Stella Schnabel, figlia di Julian. Difficile quindi forzare anche Santina nella terza categoria tematica che emerge dal concorso, quella forse più significativa per tentare di inscrivere il nuovo cinema d’autore in qualche direttiva di massima. Le storie ai margini, quelle raccolte e raccontate dalle periferie del mondo o dalle sue discariche, e la figura del flaneur, di chi vive cioè (più o meno letteralmente) tra i rifiuti delle società occidentali, sembrano esercitare un nuovo fascino agli occhi dei cineasti esordienti. Una di queste storie la racconta La bocca del lupo, che indugia a lungo fra le macerie della Genova industriale per poi approdare all’amore borderline fra il carcerato Enzo e il travestito Mary. Per buona parte della visione la regia di Pietro Marcello sembra quasi indecisa sulla via da far imboccare alla sua terza opera, se un montaggio di immagini d’archivio sulla storia del capoluogo ligure oppure un documentario che mescola fiction e recitazione a scene “strappate” alla vita reale. Poi trova (troppo tardi?) la sua “quadra” narrativa nella profonda umanità dei suoi due protagonisti e in una storia incontestabilmente forte, che gli è valsa il premio per il Miglior Film, sul quale, tuttavia, si potrebbe discutere a lungo.

Il percorso ai margini vero e proprio inizia però con Crackie di Sherry White, dove il bastardino del titolo è sia il cagnolino che la piccola Mitsy vuole prendere con sé che la stessa bambina protagonista, abbandonata alle cure della nonna da una madre prostituta e irresponsabile. Per il concorrente canadese si ripetono più o meno le stesse valutazioni già fatte per Nord: un’opera non esente da stereotipi e da qualche ruffianeria a livello di sceneggiatura, ma che nel complesso scorre piacevolmente. Si salva soprattutto per l’assenza di una qualunque visione consolatoria sul destino di chi, come Mitsy e le donne della sua famiglia prima di lei, è nata e vive raccogliendo rifiuti abbandonati dagli altri ai bordi delle strade. Un’immagine, quest’ultima, che sembra condividere l’ispirazione mccarthiana con un'altra pellicola in concorso, l’ungherese Adas/Transmission firmato da Roland Vranik. La trama ipotizza, infatti, un prossimo futuro privo di corrente elettrica e di schermi che ricorda molto da vicino le atmosfere da fantascienza povera canonizzate da La Strada, capolavoro del succitato romanziere americano: da queste coordinate il film imposta un’interessante riflessione sulle sorti dell’homo videns e sullo sguardo dello spettatore televisivo che approderà, non sempre sorretta adeguatamente dalla trama, a una conclusione fortemente postmoderna.

Abbiamo lasciato appositamente per ultimi i due film che riteniamo forse i più interessanti in assoluto di tutta la rassegna, anche per la loro particolare aderenza alla nostra poetica del raccoglistracci. Nel caso del lavoro di Ralston Jolver l’assonanza è quasi letterale: i Baseko Bacal Boys del titolo sono i ragazzi di Manila che si dedicano a immersioni marine, alla ricerca di qualche relitto da rivendere al primo rigattiere. Seguendo lo smarrimento e la ricerca di uno di loro, il regista riesce a rendere conto di una realtà crudele, che vede le genti delle Filippine fra resti e macerie, in balìa di una natura e di un’esistenza impietose di fronte alle quali per l’uomo sembra non esistere altra via di scampo che una resa incondizionata. È un altro tipo di marginalità quello che invece interessa la storia di Ion, ex soldato semplice per l’esercito ungherese durante la Seconda Guerra Mondiale e ormai settantacinquenne in lotta con la moglie, il figlio, trasferitosi in Canada, e persino con i condomini. La consegna di una medaglia d’onore (Medalia de Onoare, come da titolo) per il coraggio mostrato in battaglia lo illude per un attimo di essere finalmente apprezzato nei suoi meriti e di poter ridare una dignità alla propria vita. Lo sguardo che Calin Peter Nezter – già vincitore a Locarno nel 2003 con Maria – posa sul suo anziano protagonista è tenero e compassionevole, ma non perde occasione per far intendere la realtà politica e sociale che lo circonda in tutta la sua disumanità burocratica: quando si ride si ride amaro, con scene di profondo cinismo che impreziosiscono la tesi del regista rumeno.

È proprio in opere come queste ultime citate che una storia smette di essere fine a se stessa e inizia a riecheggiare oltre le mura del privato, accendendo in chi guarda qualche incoraggiante speranza di fuga da quella sindrome di autismo domestico di cui si scriveva, e che ancora affligge gran parte del cinema contemporaneo. Che poi i titoli più audaci, in questo senso, provengano da paesi come Romania, Ungheria o Filippine, vale a dire dalle periferia dell’impero e dell’industria culturale d’Occidente, è un dato più che significativo per ridisegnare la nostra geografia cinematografica, comprendendovi anche quei luoghi dove raccontare una storia significa ancora, inevitabilmente, raccontare la Storia e riflettere sulla società che ci circonda.

 


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