Detachment - Il distacco PDF 
Elisa Mandelli   

Forse è una questione di sfumature. Eppure, l’articolo apposto al sostantivo nel titolo italiano (che recita appunto “il distacco”) fa pensare a un’azione di distacco che si dà in un momento ben definito, circoscritto e singolare. Insomma a un solo distacco, da una persona cara, una cosa, da una situazione particolare. Il titolo inglese sembra invece alludere più propriamente a un distacco che si dà come azione reiterata (da tante persone, tante cose e situazioni), come una condizione permanente, pervasiva e vagamente inquietante. Sembra infatti tutt’altro che sereno il distacco con cui il professor Henry Barthes affronta il suo ruolo di professore supplente: un ruolo che lo colloca per sua stessa scelta sotto la cifra della provvisorietà, che gli conferisce un’essenza quasi fantasmatica, attraversata ma mai realmente toccata da rabbia, paure e frustrazioni dei suoi studenti. O almeno così pare, finché un nuovo incarico in un istituto della periferia newyorkese, dove alunni difficili e ingestibili paiono avere la meglio su professori impotenti e demotivati, rivela l’altra faccia della medaglia. Da questa prospettiva, la distanza che separa il protagonista dall’universo turbolento degli adolescenti si fa più sottile, rivelando un’empatia profonda, autentica e istintiva: è lo stesso Barthes ad ammettere di essersi sentito tante volte come i ragazzi che si trova di fronte e, come diventa man mano più evidente, a provare ancor vivo un dolore che, se non si identifica del tutto con il loro, certo ugualmente non gli lascia tregua.

Nella lunga carrellata di film che tematizzano la complessità delle relazioni (spesso difficili, a volte salvifiche) tra professori e studenti, Detachment si colloca a pieno titolo tra il recente La classe di Laurent Cantet (2008) - che ugualmente sceglieva un taglio documentaristico per la sua immersione tra i banchi di una classe problematica - e L’attimo fuggente di Peter Weir (1989), di cui l’opera di Kaye sembra rappresentare una sorta di negativo, lontana com’è dall’ottimismo e dalla voglia di vivere di cui si faceva portatore il professor Keating. Eppure, in questo insieme vasto ed eterogeneo (in cui potrebbero trovare spazio anche i nostri La scuola e Auguri, professore, con Silvio Orlando diretto rispettivamente da Daniele Luchetti, 1995, e Riccardo Milani, 1997), Detachment occupa una posizione del tutto peculiare, grazie a una serie di soluzioni che lo rendono particolarmente interessante. Innanzitutto, Kaye opera un deciso spostamento dall’asse verso la psicologia del professore. Non a caso l’obbiettivo della macchina fotografica della studentessa è insistentemente puntato su di lui: è attraverso la sua prospettiva che abbiamo accesso allo sfascio del sistema scolastico americano, cui lo sfascio della sua vita privata fa da disperante contrappunto, dipingendo un universo cupo e senza scampo, dove lo scacco pare essere l’unico orizzonte dato, e la speranza una fragile eccezione. In questo quadro, il tormentato Henry Barthes è un antieroe imperfetto e consapevole delle proprie debolezze, ma non privo di ideali e punti di riferimento: una costellazione che si dispiega man mano, implicita (l’epigrafe da Noces di Camus, il cognome che rimanda chiaramente al semiologo Roland Barthes) o dichiarata (i nomi di Poe e Orwell evocati durante le lezioni, suggeriti come modello di pensiero, se non addirittura strumento di salvezza). Che poi questa salvezza venga tragicamente mancata la dice lunga sul tono del film, in cui la severa denuncia di una condizione insieme politica ed economica (i funzionari intendono chiudere la scuola perché la sua cattiva immagine allontana gli acquirenti di immobili dalla zona) ed esistenziale (lo sconforto non risparmia nessuno dei professori, e gli alunni si disinteressano del loro stesso futuro) si rivela più urgente che la proposta di una soluzione. Sembra di sentire l’eco della rabbia violenta di cui era intriso American History X, (1998) sorprendente opera prima di Kaye, mista all’inesausto impegno sociale alla base del documentario Lake of Fire (2006), dedicato al tema dell’aborto negli Stati Uniti. 

In secondo luogo, la struttura narrativa di Detachment dimostra un’articolazione coerente e organica, per quanto complessa, delle molteplici sottotrame che si dipanano a partire dal macro-tema scolastico: appena abbozzate ma straordinariamente incisive come le storie di quotidiana sconfitta - professionale e personale - degli altri docenti, o ricche di risvolti come la relazione con il nonno, che costringe a un doloroso via vai tra il presente e un passato tragico e irrisolto. O ancora, linee narrative apparentemente fugaci ma in grado di prendere il sopravvento come quella della giovanissima prostituta che Barthes accoglie a casa sua, offrendo a lei e a se stesso un’occasione di redenzione (forse l’unica che non sarà sprecata fino in fondo). Il tutto raccontato attraverso uno stile composito, che rifiuta l’equilibrio e l’armonia per privilegiare una camera a mano sempre nervosamente in movimento, una fotografia satura e contrastata come la psicologia dei personaggi, l’eterogeneità dell’alternarsi di inserti documentaristici (le interviste a veri professori nell’incipit, e quella al personaggio di Brody che percorre tutto il film), filmati amatoriali (a dare corpo al riaffacciarsi delle memorie d’infanzia del protagonista) e animazioni disegnate sulla lavagna, a restituire sentimenti e situazioni di cui la macchina da presa sembra non arrivare a catturare l’essenza. Una frammentazione - tematica, narrativa, stilistica - che si ricompone in un’unità non necessariamente limpida e lineare: come nei collage fotografici della studentessa Meredith, sembra che solo la complessa stratificazione delle immagini e dei punti di vista possa restituire, almeno in parte, e almeno per un istante, l’insondabile profondità dell’Io.

 


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