Filippo Timi, tra letteratura, teatro e cinema PDF 
Anna Barison   

Attore teatrale, cinematografico, regista, scrittore, Filippo Timi è molte cose insieme e allo stesso tempo un personaggio che si è distinto negli ultimi anni per le sue scelte coraggiose. Dopo il successo di Cannes, dove ha presentato Vincere di Marco Bellocchio, in cui interpretava il non facile ruolo di Mussolini, Filippo Timi sceglie anche il teatro a cui è legato fin da giovanissimo.

In ambito teatrale, fin dalle tue prime esperienze di attore, hai optato per scelte non convenzionali. Hai spesso fatto delle incursioni nel teatro di ricerca lavorando con Barberio Corsetti. Quale insegnamento ti porti dietro da questa formazione non accademica?
Sinceramente il corpo, ovvero ho sempre provato a dare corpo e quindi fisicità e concretezza a tutti i mezzi espressivi che si possono usare per affrontare la costruzione di un ruolo: la voce, la gestualità, il pensiero, devono necessariamente tradursi in corpo, in fatto fisico, e questo procedimento toglie qualsiasi idea di psicologismo, rende il tutto una ricerca specialmente concreta, appunto fisica. Credo che sia questo il bagaglio più peculiare che differenzia il teatro classico, abituato cioè a un’analisi psicologica e a un approccio più intellettuale, al teatro più fisico e quindi sperimentale. Sperimentare a teatro significa cercare di arrivare a un obiettivo comune ma attraverso strade meno scontate.

E infatti, da quello che si legge nella tua biografia, hai lavorato anche facendo teatro/danza, dove comunque l’elemento “fisicità” è predominante.
Sì esatto, quello è un ulteriore modo di affrontare il palcoscenico seguendo le stesse dinamiche.

Hai frequentato anche il centro Grotowski di Pontedera, un laboratorio di ricerca molto rivoluzionario fino ad alcuni anni fa, che provocò un ripensamento del concetto stesso di teatro e del suo scopo. Come ti sei avvicinato a questo centro?
È stato molto semplice, avevo visto degli spettacoli di Grotowski, uno dei quali fu Il principe costante con Cieslak, uno dei suoi  attori più straordinari. È piuttosto impressionante il lavoro che Grotowski fa col teatro, e quindi, dopo essermi informato, sono partito a 19 anni per frequentare quel centro. Non ho lavorato proprio con Grotowski, perché entrare nel suo gruppo significava sposare una filosofia di vita, e io ero forse ancora troppo giovane per abbracciarla totalmente. Lì a Pontedera c’è anche un centro che insieme a Grotowski fa teatro sperimentale, ma un po’ più “light”, non così “da monaco” diciamo, e così ho studiato con loro. Ci sono rimasto un anno, poi ho scelto altre strade.

Come hai vissuto il Premio Ubu come miglior attore under trenta nel 2004?
Bene, è un premio importante... e lo desideravo tanto perché, pur non avendo mai fatto una scuola o un’accademia, vincerlo significava che come attore ero arrivato ugualmente ad un livello eccellente. Insomma era un premio per un percorso alternativo di formazione, quasi da autodidatta.

E poi ti sei lanciato nella regia teatrale con Il popolo non ha il pane? Diamogli le brioche, una rivisitazione in chiave ironica dell’Amleto.
Quello spettacolo è capitato per caso... è un testo che si basa molto sul lavoro dell’attore, e anche la regia ne risente,. Ho semplicemente portato il mio lavoro attoriale come bagaglio di conoscenza  per altri attori. Il testo è solo il collante dello spettacolo, ho cercato più che altro di coniugare la scrittura alla mia esperienza di attore. Anche in questo caso non sono un regista classico, nel senso che ho un’idea e la metto in scena. Parto totalmente dall’attore.

Da qualche anno sei anche uno scrittore. Come ha scritto Gilles Deleuze, un filosofo che citi spesso, “Essere una persona è un processo che non ha fine”, questo concetto credo che possa rispecchiare  il tuo desiderio di sperimentare. Mi vengono in mente i tuoi tre romanzi: Tutt’al più muoio, E lasciamole cadere queste stelle, Peggio che diventar famoso, tutti abbastanza autobiografici. Che cosa ci puoi dire a proposito di questi tuoi scritti?
Scrivere è un mezzo espressivo molto intimo. Per alcuni versi mi serve per riempire quella distanza che c’è tra me e il pubblico, una distanza che riscontro a teatro ma soprattutto al cinema. È molto interessante quando incontro qualcuno che mi ha visto in un film: l’approccio che ha è più di ammirazione incondizionata... se invece conosce anche i miei libri quell'ammirazione si smonta perché attraverso il libro ti ha conosciuto più intimamente, ti ha frequentato con un altro tempo. È molto terapeutico osservare le diverse reazioni del pubblico. Credo che se non scrivessi non so quanto riuscirei a sostenere il peso di fare film. (ride)

Addirittura?
Sì, perché fare un film ti dà un’esposizione così forte che è davvero pericolosa. Al cinema non esiste l’io puro della persona, ovvero non esce fuori come uno è veramente. Mentre nei libri non è così. Per esempio in Tutt’al più muoio io mi sono reinventato, c’è chiaramente un falso storico, che però diventa vero perché è ben raccontato. Nei film c’è la tua faccia e il tuo corpo, e quando un attore fa bene il proprio ruolo rischia di venir percepito dal pubblico come il personaggio che inerpreta, rimanendone incastrato. Mi viene in mente Jack Nicholson in Shining. Lui è stato per anni identificato in quel matto un po’ diabolico, e paradossalmente la faccia abbinata ad un ruolo ti imprime di più che appunto un libro, dove apparentemente ti esponi di più ma in realtà sei tu a decidere cosa far vedere al pubblico, sei tu che guidi il lettore nella tua intimità.

Una cosa interessante nella tua carriera cinematografica è che scegli con cura i tuoi ruoli, attraverso una logica che va al di là di scelte scontate. Sei un po’ un outsider in questo. Che cosa ti affascina di questi ruoli?
Innanzitutto non sono solo io a scegliere, sono anche scelto, e questo è molto importante. È chiaro che ho libertà di scelta, perché su cinque film che mi propongono magari a tre dico subito no e poi faccio il provino degli altri due. Tutte le volte che ho scelto di fare un provino mi hanno preso, quindi forse avevo visto giusto. Sto tentando di costruire un percorso e in base a questo scelgo. Ho nella mia testa più o meno vagamente un’idea di attore e di crescita e quindi provo a seguire questa idea.

E qual è questa idea?
Si forma andando avanti. Ti faccio un esempio: ad un certo punto ho lavorato con Gabriele Salvatores in Come dio Comanda. Il mio era un ruolo molto chiaro, anche molto difficile, visto che interpretavo un padre un po’ disperato. Subito dopo c’è stata la possibilità di lavorare con Marco Bellocchio e quindi di confrontarmi con un altro tipo di cinema e soprattutto con un personaggio storico. Dopo Zena, mi sembrava interessante interpretare Mussolini. Poi tra le varie proposte ci fu quella di Giuseppe Capotondi, un regista esordiente, mi sentivo pronto a lavorare con un esordiente in un noir contemporaneo. Il percorso arriva anche dalle proposte. Si forma soprattutto sui no più che sui sì.

Nel film di Salvatores il tuo modo di recitare e di proporti è molto realistico, con Vincere invece, e forse grazie a Bellocchio, che predilige un modo di girare anti naturalistico ed esteticamente formale, hai scelto una recitazione più accademica. In questo sei bravo, a giocare cioè su più livelli espressivi a seconda di chi ti trovi davanti.
Questo, come dici tu, è molto legato ai registi, alla visione che loro hanno, perché è chiaro che l’attore dev’essere creativo, ma deve anche centrare il più possibile la visione del regista. Credo che l’importante in un film sia proprio l’armonia d’insieme. Chi se ne importa se quell’attore è straordinario, ma se non entra perfettamente in un disegno compatto con il film il suo talento non vale nulla. La cosa più utile è ascoltare! In teatro una delle leggi fondamentali, oltre che la leggerezza, è proprio quell’ascoltare il regista, la scena, insomma quello che accade intorno a noi, per non ritrovarsi a recitare da soli.

Ma se tu dovessi scegliere, ami di più i ruoli storici, per così dire "impostati", o prediligi dei ruoli più affini ad una visione realistica?
Li amo tutti perché come disse Stanislavskij: “Non esistono piccoli ruoli o brutti ruoli, esistono piccoli attori o brutti attori”. Alcune volte anche un cameo può essere un ruolo straordinario, interessantissimo, in questo sono onnivoro.

Hai qualche mito di riferimento? Dalla tua giovinezza ti sei portato dietro degli autori, piuttosto che degli attori, registi, filosofi che ti hanno indirizzato?
Sì, ma sono scontato!… Kubrick per esempio. Teatralmente riconosco solo Carmelo Bene, il resto non mi entusiasma come lui. Al cinema Tognazzi e Gian Maria Volontè mi hanno molto emozionato, ma sono nomi talmente grandi che è impossibile non amarli.

E nel teatro contemporaneo? Visti i tuoi gusti mi viene in mente La Societas Raffaello Sanzio
Fantastici! Li adoro proprio. Romeo Castellucci è un genio, stavo anche per lavorare con lui, mi aveva chiesto di interpretare Bruto nel Giulio Cesare. Però all’epoca lavoravo con Barberio Corsetti e quindi non potevo fare entrambe le rappresentazioni, dovetti rinunciare. Li ho conosciuti bene perché lavoravo a Cesena con un’altra compagnia, La Valdoca, una “costola” della Societas.

Per il futuro ci puoi anticipare qualcosa?
Uscirà a settembre il primo lungometraggio di Giuseppe Capotondi, di cui parlavo prima, poi riprenderò la tournèe de Il popolo non ha il pane? Diamogli le brioche. La mia prerogativa è fare solo cose in cui credo. E forse anche per avere soldi, per mangiare, per stare tranquillo, per comprarti tutti i vestiti che vuoi, un giorno magari una casa... però piano, la vita non bisogna correrla troppo!

 


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