Il campo PDF 
Matteo Marelli   

Il cinema irlandese ha una storia tormentata tanto quanto quella del proprio paese. Il condizionamento anglo-americano, rintracciabile sia a livello economico che estetico, e lo scarso sostegno dimostrato del governo locale hanno per decenni impedito all’Irlanda di riuscire a trovare una propria autonomia a livello cinematografico. È solo grazie ai successi internazionali ottenuti, a cominciare negli anni Ottanta, da Neil Jordan e Jim Sheridan che lo Stato irlandese comincerà a promuovere la produzione filmica nazionale attraverso l’istituzione dell’Irish Film Board (IFB). Proprio il vasto consenso sorto intorno a pellicole come Il mio piede sinistro, La moglie del soldato o Nel nome del padre, coinciso con la sorprendente evoluzione economica e politica del paese, ha permesso al cinema irlandese di svilupparsi, diffondersi, e farsi apprezzare anche all’estero. Nonostante sia ormai in grado di varcare i confini della territorialità e di raggiungere un vasto pubblico, il cinema irlandese è però un terreno ancora poco sondato nell’ambito delle cinematografie europee, forse perché i suoi rimandi restano comunque attorcigliati alla propria identità nazionale.

Questa osservazione di carattere generale trova conferme nella seconda regia di Jim Sheridan, Il campo. Tratto da una pièce teatrale, il lavoro di Sheridan è uno spaccato di vita rurale diretto con incedere tragico. La storia narrata funziona come un prisma che proietta le diverse facce della complessa questione irlandese. Il villaggio, che fa da teatro alla vicenda, è una sorta di osservatorio privilegiato, un crocevia fra le principali tensioni che hanno attraversato il paese. Una specie di laboratorio, che permette di fare i conti con le tensioni cui è stata sottoposta l’Irlanda. Da un lato c’è un’idea di territorio a-storica, sostenuta dall’anziano contadino Bull McCabe, per il quale il controllo di una regione spetta, per legge naturale, alla comunità che da sempre l’ha abitata, e che pensa che chiunque arrivi sia un estraneo da allontanare per la salvaguardia del proprio mondo, che deve mantenersi nel tempo sempre identico a se stesso. Dall’altro un’idea di sfruttamento spregiudicato del territorio, visto unicamente come fonte d’immediato profitto, portata avanti dall’imprenditore yankee, statunitense di seconda generazione ma irlandese di origine, in visita nei luoghi che hanno dato i natali alla propria famiglia e deciso a stravolgere la realtà contadina che lo circonda a favore di una rivoluzione industriale che non si può tardare ad attuare. A portare allo scontro queste due diverse concezioni del mondo è il possesso di un piccolo appezzamento agricolo che McCabe coltiva, da affittuario, da tutta la vita, e che anche l’americano vorrebbe acquistare, ora che la proprietaria ha deciso di metterlo all’asta, per lastricarlo e destinarlo alle proprie imprese.

Lo scontro è dunque quello fra due umanità inconciliabili, incomunicanti, che possono distruggersi a vicenda, ma non trovare mai un punto di mediazione. L’americano è l’eroe di un mondo borghese, capitalista e neocolonialista, incarna l’efficienza e la praticità. Le sue azioni sono sempre finalizzate, ragiona solamente nell’ottica di profitto, scambio e potere. L’approccio utilitaristico che ha nei confronti della vita lo conduce a fare terra bruciata di ogni possibile impedimento di natura affettiva. McCabe rappresenta invece ciò che la coscienza borghese vorrebbe veder cancellato, è un emarginato, un depredato, un violentato, è l’esponente di un’atroce condizione umana. È un uomo nato nel fango, da sempre costretto a vivere ai margini, in un mondo fatto di miseria materiale, per la sola colpa di portare inscritta sul proprio corpo le tracce della povertà. Per lui il territorio non è un semplice dato geografico, ma è un luogo carico di significati, dell'esperienza storica e locale di quella data zona. Il campo, che rappresenta l’oggetto del contendere, per McCabe è uno scrigno di grovigli di emozioni e di sentimenti complessi, è imbevuto del sangue dei propri morti. Per lavorarlo ha sacrificato tutti gli affetti, portarglielo via significherebbe privarlo dell’esistenza.

La capacità che va riconosciuta a Sheridan è sicuramente quella di riuscire a restituire, attraverso il paesaggio di un antico e oscuro borgo di poveri contadini dediti alla fame e alla miseria abbondante – reso per mezzo d’una fotografia atmosferica che fissa suggestivamente tutto il verde per terra, e le pozze d’acqua di piombo –, il retaggio culturale e antropologico dell’Irlanda, quella condizione umana e sociale dolorosa che ha segnato lungamente il paese. Questa tuttavia rimane la sola nota veramente positiva del film. Sheridan infatti non riesce a dare respiro cinematografico alla messa in scena, che fa sentire la propria derivazione teatrale. Gli accenti sono fortemente marcati, sempre pronti a sfiorare il melodramma, e gli attori sembrano tutti impegnati a dar sfoggio del loro gigantismo recitativo, mostrando particolare indulgenza a sondare il torvo e l’oscuro insito nei propri ruoli. Questo si ripercuote negativamente sulla costruzione dei personaggi, che si trasformano in maschere stereotipate rese per mezzo di toni quasi sempre tronfi e declamatori.

TITOLO ORIGINALE: The Field; REGIA: Jim Sheridan; SCENEGGIATURA: Jim Sheridan; FOTOGRAFIA: Talk Conroy; MONTAGGIO: J. Patrick Duffner; MUSICA: Elmer Bernstein; PRODUZIONE: Irlanda; ANNO: 1990; DURATA: 121 min.

 


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