Quasi ci si trovasse in una cartolina, la macchina da presa, in un solo colpo d’occhio, sceglie come prologo alla storia un campo lungo, mostrando dei gabbiani intenti a scivolare sulle onde del mare californiano, surfisti sulla riva della spiaggia e una voce fuori campo che pare leggere delle lettere scritte su un cartello. Così il film si apre e rivela dall’inizio la metafora dell’occhio, ciò che riesce a percepire, ciò che non riesce a cogliere, e tanto più si spinge lontano tanto più si rivela cieco di fronte a se stesso. Così l’oftalmologo Tom, interpretato da Martin Sheen - protagonista, padre e attore feticcio di Emilio Estevez -, viene a sapere della morte del figlio lungo il cammino che lo avrebbe portato a Santiago de Compostela. Un incidente fortuito capitato proprio all’inizio del lungo pellegrinaggio verso il Santuario, è l’incipit che dà modo al padre di ripercorrere i propri errori, riparando alla propria goffa cecità di fronte alla volontà del figlio di riscoprirsi, assaporando la vita presa con l’imprevedibilità dei suoi tempi e silenzi.
Descrittivo, meditativo, e teatrale nella scelta di regia strutturalmente classica, sembra che il film segua i passi di chi li compie per arrivare alla propria Mecca - Santiago -, ed Estevez lascia che siano gli attori a decidere le sorti del film, costruito ad hoc sull’interpretazione del padre Avery/Sheen, che, zaino in spalla, si mette in viaggio per ritrovare il figlio, se stesso e una strada che possa riscattarlo dalla sua indifferenza e grettezza nei confronti del mondo. Uscito nel 2010 e presentato al Festival di Toronto, ma distribuito in Italia solo ora, Il cammino di Santiago, dà modo al poliedrico Estevez - sceneggiatore, attore e regista - di misurarsi con un tema suggestivo quanto semplice, in cui attorno all’idea cardine del viaggio spirituale si snodano le sottotracce della rinascita catartica attraverso l’elaborazione del lutto e della sopravvivenza a un figlio di un padre assente. Tra gli occhi e la ragione, nel film di Estevez, sono le interferenze a imporsi, quegli abituali rumori o intrusioni che il film sembra voler rivelare sin dall’inizio come oggetti ingombranti, d’intralcio per una pacifica visione d’insieme. Così l’occhio, accecato dalla ragione, sino alla notizia della morte del figlio, non riesce a farsi spazio per vedere, per accogliere nel proprio sguardo ciò che il mondo ha da offrire, come gli occasionali quanto profetici incontri che avvengono lungo gli ottocento chilometri che separano i Pirenei francesi dal Santuario di Santiago.
A volte con eccessi retorici, Il cammino per Santiago è un viaggio on the road, morbido e assorto, che vede diversi personaggi intraprenderlo, archetipi di un mondo che costringe nei propri spazi chi è solito ignorarsi, chi è in crisi con se stesso, chi va alla ricerca del silenzio, e chi, come Tom, si trova obbligato a scontrarsi con la propria inadeguatezza. Un inno alla vita, che è di per se un pellegrinaggio, l’ultimo film di Estevez non sconvolge per l’innovazione, gli sperimentalismi, un uso del linguaggio cinematografico stratificato o preziosi richiami al grande cinema, ma lascia riflettere sulla scelta di un cinema che appare come un silenzioso, dimesso compagno di viaggio, colui che possa testimoniare la riscoperta di se stessi attraverso il mondo circostante.
Titolo originale: The Way; Regia: Emilio Estevez; Sceneggiatura: Emilio Estevez; Fotografia: Juan Miguel Azpiroz; Montaggio: Richard Chew, Raúl Dávalos; Scenografia: Víctor Molero; Costumi: Tatiana Hernández; Musiche: Tyler Bates; Produzione: Filmax Entertainment, Icon Entertainment International, Elixir Films; Distribuzione: 01 Distribution/Rai Cinema; Durata: 123 min.; Origine: USA/Spagna, 2010
|