Etica della carne: verso un nuovo cinema con The Wrestler PDF 
Enrico Maria Artale   

Uno spettatore attento a non cadere nelle trappole posizionate dal marketing e dalla mondanità del lido, dovrebbe essersi reso conto di trovarsi davanti, con The Wrestler, ad un oggetto misterioso, ad un film che merita una riflessione in merito alle proprie modalità e potenzialità cinematografiche. Un’opera che andrebbe innanzitutto presa per se stessa, nella sua unità, senza indagare a fondo la questione della sua paternità, pressoché irrisolvibile e assolutamente secondaria. È chiaro che il regista e co-produttore Darren Aronofsky non detiene il peso autoriale che aveva nei film precedenti, in cui ha sempre firmato la sceneggiatura (e anche il soggetto, a parte Requiem for a Dream), e la sostanziale differenza nell’approccio stilistico scelto per The Wrestler potrebbe funzionare da controprova. Al tempo stesso, però, va sottolineato come l’importanza del film non risieda in primis nella sceneggiatura, che malgrado la dovizia nella caratterizzazione dei personaggi e la splendida fluidità dei dialoghi non costituisce di per sé l’originalità dell’opera. Si potrebbe allora insistere sulla prestazione (più che interpretazione) di Mickey Rourke: in tal caso sarebbe bene evidenziare la coincidenza evocativa tra la vita dell’attore e quella del protagonista, accomunate, nel declino fisico e morale, dall’idea di un riscatto possibile. Sottolinearne le capacità attoriali è doveroso, ma per chi ha seguito la carriera di Rourke suona piuttosto scontato, non potendo dimenticare tanto le folgoranti interpretazioni giovanili (Rusty il selvaggio su tutte), quanto i piccoli ruoli ritagliati per lui negli ultimi anni (C‘era una volta in Messico). Per coglierne appieno le potenzialità non è necessario ascrivere il film ad una filmografia specifica, né di un autore, né di un genere.

Strutturalmente parlando, The Wrestler è un film molto convenzionale, e lo è ancor di più rispetto al sottogenere di cui in un modo o nell’altro fa parte, che comprende i film di pugilato, arti marziali e quant’altro, nella variante crepuscolare. Ne rispetta i cliché narrativi, le tappe, le tematiche fondamentali; innanzitutto la caratterizzazione di un eroe nelle vesti di un angelo caduto (e la parrucca bionda gioca un ruolo non indifferente), e non, come qualcuno ha scritto in modo assai affrettato, di un vero e proprio antieroe: nel personaggio di Randy non è presente alcun nichilismo di fondo. Non si tratta dell’assenza di energia, ma di un’energia domata e messa da parte per scelta, il più delle volte in seguito ad una delusione o ad un trauma (e qui è in senso letterale, tanto che si tratta di una costrizione più che di una scelta). Un’energia che è sempre sul punto di essere ridestata dalla sfida, e al tempo stesso dalla solitudine radicale, dal desiderio di vita. L’incapacità di gestire i rapporti con le persone care, e le difficoltà relazionali in genere, definiscono queste figure, costrette a scontare nella quotidianità il proprio essenziale legame con la violenza, unica sfera del comportamento umano in cui il loro ego raggiunge un’espressione personale ed intensa. Ne consegue una solitudine radicale, in cui ogni tentativo di apertura e di ricerca comporta un dolore, una ferita inflitta tanto agli altri quanto a se stessi. A completare il quadro descrittivo di questo piccolo archetipo culturale è il contatto stretto con la povertà, non soltanto nell’accezione negativa di un’esistenza vessata dalle difficoltà economiche, ma anche nel risvolto poetico, plausibilmente caro agli americani, della riscoperta di una semplicità nelle piccole cose. Nel film in questione è la sequenza in cui Randy gioca con i bambini a testimoniare questa componente fondamentale del suo mondo, e non è un caso che finché il personaggio interagisce con molti bambini il film porta in superficie la sua gioia, ma quando avrà a che fare con uno solo di questi, di fronte ad un vecchio videogioco, abbiamo nuovamente una sequenza malinconica, che pone maggiormente l’accento sulla solitudine del protagonista, capace sì di intrattenere dei rapporti giocosi o cordiali con gli estranei (lo vediamo con gli altri wrestlers come con i clienti del supermarket), ma radicalmente impossibilitato a stabilire una relazione più profonda, personale, con un singolo.

Non si può parlare realmente di un messaggio, di una conclusione morale evidente, come ad esempio avveniva in Requiem for a Dream, in modo peraltro sbrigativo e scontato. Ma se esiste anche soltanto una debole riflessione conclusiva, ben integrata nella natura complessivamente fenomenologica del film, anche questa ci porta in una direzione non lontana dalla tradizione americana, laddove si respira il tema tutto maschile dell’accettazione del destino a fronte di un riconoscimento della condanna inappellabile alla solitudine, condanna che le figure femminili sanciscono più o meno volontariamente. Sembrerebbe quindi che The Wrestler sia soprattutto un bel film, ben scritto, ben diretto e magnificamente interpretato, non soltanto da Rourke ma anche da una Marisa Tomei altrettanto impeccabile e potente nell’uso della corporeità, da far pensare che forse il film abbia leggermente mancato il più affascinante dei temi possibili, non insistendo a dovere sul parallelismo tra il lottatore e la spogliarellista fino a farne due simboli universali dello stato diversamente degradato della corporeità attuale, sia maschile che femminile. Tuttavia, non siamo semplicemente di fronte ad un bel film, e il Leone d’Oro potrebbe essere più legittimo di quanto non sia stato scritto a margine di un’edizione del Festival probabilmente in tono minore rispetto al passato.

The Wrestler si presenta potenzialmente come un film chiave, un tentativo a tratti inconsapevole di realizzare una difficile sintesi tra tendenze assai diverse del cinema contemporaneo. Che il cinema indipendente americano abbia sempre guardato con estremo interesse all’Europa è un fatto assodato, per quanto ciò non renda più di tanto possibile una categorizzazione in merito. Eppure, negli ultimi anni, la distanza tra i due modelli fondamentali del cinema occidentale sembra aumentare, almeno per quel che riguarda le produzioni d’autore, comprese tutte le ambiguità che la definizione comporta rispetto al sistema statunitense. La differenza riguarda le direzioni di ricerca intraprese, almeno per quel che riguarda i registi che si sono segnalati maggiormente da una parte e dall’altra dell’Atlantico. Sintetizzando, si potrebbe affermare che gli autori europei abbiano cercato di dare una nuova forma al rigore etico e al rapporto con la realtà che dal dopoguerra in poi hanno variamente caratterizzato buona parte del cinema nel vecchio continente. Sarebbe piuttosto superficiale però giudicare questo nuova produzione, comprese le sue declinazioni extraeuropee, soprattutto mediorientali, come un’ennesima riproduzione del Neorealismo e dei suoi modelli. Da questi ereditano certamente l’impegno etico-politico e la fede in un rapporto disvelativo con la realtà, ma le modalità dell’approccio sono assolutamente eterogenee. Vale la pena riferirsi all’esempio dei fratelli Dardenne, sia perché nessun altro regista europeo ha ricevuto altrettanti riconoscimenti negli ultimi dieci anni, sia per motivi di pertinenza rispetto al tema in questione. I cineasti belgi hanno inaugurato un modo assolutamente originale di fare cinema, irriducibile ad ogni esperienza precedente di realismo, grazie ad una nuova concezione della prossimità all’individuo che può esser riassunta, nella sua assoluta semplicità, dalla differente posizione assegnata alla macchina da presa: dalla vicinanza frontale al volto esasperata prima da Bergman e poi dai registi degli anni Settanta (soprattutto il più europeo degli americani, Cassavetes), si passa ad una prossimità alla nuca, alle spalle, in una conformazione radicale prima di allora intentata. La parziale rinuncia all’espressività del volto, estremizzata in film come Rosetta o Il figlio, non agisce in funzione di un’attitudine ellittica, di un non voler mostrare, di un pudore. Piuttosto conferisce un nuovo statuto al personaggio e alle sue azioni poiché, come scrive il fisionomo Kassner, “nella nuca l’uomo è complice di se stesso”. Non avviene dunque soltanto una riqualificazione della soggettività cinematografica, ma si concretizza un tentativo di superare la bidimensionalità iconica del volto in direzione del volume sferico, la testa, nella sua enigmatica complessità.

Probabilmente non si era mai visto un film americano più dardenniano di The Wrestler, non certo in riferimento al contenuto morale, quanto all’aspetto stilistico. Se è vero che nel caso dei cineasti belgi le due componenti siano vicendevolmente determinate, e quindi la relazione con il film di Aronofsky non sembrerebbe essere poi così intima, va sottolineato che questa affinità è tutt’altro che trascurabile: il regista americano trasforma in stilemi ciò che per i Dardenne era un’idea formale, ma in quest’operazione non priva di furbizia riesce a mantenerne intatta la potenza narrativa  fino a rivitalizzare da dentro il film intero. La macchina a mano che segue il personaggio ininterrottamente non perde la capacità di raccontare violentemente il grado di ossessività del suo mondo e del nostro. L’asciuttezza e il rigore del suo procedere contrastano l’eccessivo patetismo di alcuni momenti e perseguono un’empatia razionale non comune nel cinema d’oltreoceano. Espedienti più in linea con la nouvelle vague o il cinema indipendente made in USA, come il 16mm e la sovraesposizione forzata, si conciliano bene con questo modo di concepire le riprese, senza apparire soltanto come vezzi o inclinazioni alla moda dilagante della fotografia per così dire “poco pulita”, ormai definitivamente emancipata dalla produzione low budget (basti a pensare a proposito al lavoro straordinario che Robert Schafter ha eseguito per Quantum of Solace).

Se per i principali autori del cinema europeo l’obiettivo è risvegliare l’impegno etico in una messinscena rigorosa e attenta alla vita (da Loach a Cantet, fino ai casi più estremi di Mungiu o Haneke), gli autori americani, più o meno giovani, si sono spinti verso territori quantomeno diversi, se non incompatibili. Anche in questo caso operare una sintesi è senza dubbio un atto critico arbitrario, eppure sembra che si possa definire come tendenza comune la ricerca quasi spasomodica di una fisicità sempre più tangibile, attraverso cui recuperare la pienezza scioccante della fruizione cinematografica. Le modalità sono le più disparate, se crediamo di poter attribuire questa tensione tanto a Tarantino quanto a Terrence Malick, e molti autori hanno lavorato in questo senso soprattutto nei film prodotti negli ultimi anni: si pensi ai due film di Cronenberg, a Non è un per vecchi dei Coen, e soprattutto a Il Petroliere di Paul Thomas Anderson, che potrebbe essere considerato una sorta di manifesto alla concretezza del nuovo cinema americano. Lo stesso Gus Van Sant, che pure può essere considerato per certi versi il massimo esempio della trasfigurazione statunitense dell’idea di cinema affermata dai nuovi autori europei, ha manifestato un’esigenza simile nello scarto stilistico tra Elephant e Paranoid Park. E persino i film di Mel Gibson manifestano, nel loro approccio semplicistico, un tentativo fallito di entrare dentro la carne. Non è un caso che in The Wrestler si faccia un riferimento polemico a The Passion; la lettura cristologica della vicenda sarebbe stata chiara anche senza la battuta, ma questa costituisce un indizio importante circa la consapevolezza degli autori a riguardo: viene ribadita la centralità morale della sofferenza fisica, rimproverando a Gibson l’incapacità di porre un’estetica della carne alla base del cinema stesso. Non si tratta di limitarsi a narrare storie cruente o ad inquadrare atti efferati, cosa che in un modo o nell’altro appartiene alla storia del cinema; si tratta di modellare l’intero impianto stilistico non tanto in funzione del senso logico quanto della sensazione fisica pura, violenta e viscerale. È un istinto che non anima il cinema europeo dei nostri giorni, ma che pure è sorto nel vecchio continente. Attitudine per lo più estranea ai francesi, a parte forse Godard e Rivette, caratterizza gran parte del cinema italiano, Fellini innanzitutto, e soprattutto Bergman, il cineasta che più di chiunque altro si è spinto nella comunicazione fisica attraverso il cinema. Ora i registi americani sembrano maggiormente interessati al corpo, al sesso e ad ogni altro evento fisico di quanto non lo siano gli europei, e The Wrestler rappresenta un potentissimo esempio di questa istanza creativa. E non è soltanto per merito di due interpreti fantastici che il film conferisce ai personaggi la tangibilità corporea della presenza, ma sembra esserci qualcosa di misteriosamente carnale che passa attraverso le inquadrature, tanto che si è in difficoltà nel momento in cui si vorrebbe descrivere analiticamente di cosa si tratta. Qualcosa che sfugge alla logica concettuale, e che pertanto non può essere fissato, insegnato, riprodotto. Tutto concorre alla concretizzazione: luce, recitazione, composizione, fuoco, montaggio. Eppure esiste qualcosa di molto più sotterraneo, eccitante ed istintivo che anima queste sequenze: la scena di sesso sulle scale in A History of Violence, i primi venti minuti de Il Petroliere, così come in The Wrestler i commiati dei lottatori, le medicazioni, la lap dance.

L’operazione di sintesi tra tendenze europee ed americane, tra tensione etica e sensazione fisica, costituisce al tempo stesso il limite del film, impedendo da un lato o dall’altro il radicalismo necessario per portare alle estreme conseguenze l’idea di partenza. Per questo motivo The Wrestler non è certamente un capolavoro, né probabilmente un film che verrà ricordato molto a lungo. Eppure può rappresentare uno stimolo importante per perseguire una fusione degli orizzonti creativi in grado di mantenere tanto la radicalità del rigore etico quanto la potenza estetica della carne. Per far ciò è forse necessario che ciascuna istanza arrivi a trascendere se stessa: l’eticità dovrebbe entrare in relazione con la costitutiva amoralità dell’esistente, mostrandosi capace di sospendere il giudizio fino in fondo, senza dimenticare il famoso detto di Godard: “non un’immagine giusta, ma giusto un’immagine!”. L’estetica della sensazione è invece chiamata a definire la propria carne come qualcosa di non necessariamente riferito al soggetto, uomo/animale, ma aperto sul rapporto con l’alterità e l’oggettività, penetrando in quella che con Merleau-Ponty potremmo definire “la carne del mondo”. Comporre dinamicamente le due frontiere rappresenta la sfida più stimolante per il cinema mondiale, forse perché mette in gioco la possibilità di parlare su vasta scala, producendo dei film che possano costituire nuovamente un punto di riferimento globale senza chiamare in causa un pubblico specifico, fino alla riconquista di un potere che nessuna forma espressiva sembra ormai in grado di ereditare.

 


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