Il grande Roman Polanski chiude il conto con la sua Patria, con la Storia, con il suo passato. Girovago troppo spesso ritenuto apolide, ha lavorato sotto la bandiera polacca, francese, statunitense, sempre mantenendo una coesione mirabile. Inguaribile curioso del diabolico, paranoico cultore del disagio dello straniero in terra straniera, raffinato e classicheggiante esteta della macchina da presa, trova con Il pianista il coraggio, ormai settantenne, di affrontare il dramma più grande vissuto dal suo Paese.
Trama: storia, vera, di un pianista polacco, Wladislaw Szpilman, e della sua drammatica sopravvivenza durante le persecuzioni naziste di Varsavia.
L'opera tracima biografia anche per conto del cineasta, il quale, benché nato a Parigi, si trasferì coi genitori in Polonia in tempo per essere rinchiuso nel ghetto della capitale, dal quale fuggì a sette anni. La madre morì ad Auschwitz ed egli rivide il padre dopo anni.
Il pianista diventa così "Il regista". La partecipazione dell'autore, che solo col passare del tempo trova il distacco necessario per dire la sua su un dramma che ha vissuto in prima persona, è talmente sincera e forte che talora la macchina da presa raggela lo sguardo dello spettatore. I facili sentimentalismi rimangono dietro l'angolo e la paura, l'angoscia, gli stenti balzano talmente in evidenza da non aver bisogno di drammatizzazioni ulteriori che non siano la semplice rappresentazione di essi.
Polanski (il suo vero cognome è Liebling) guarda nella macchina da presa ma lo fa con gli occhi appannati dalla commozione personale. Le parole sono sovente abolite o suonano come estranee (il tedesco). La comunicazione è solo più con la follia. La disperazione e la voglia di sopravvivere sono così forti da travalicare il comune senso dell'incredulità per la follia sterminatrice, sino a giungere a una compunta e convinta condivisione. Schindler's List è un capolavoro, ma lo è soprattutto perché, come spesso capita a Spielberg, si tratta della nave rompighiaccio. Il pianista ha il torto di giungere quasi dieci anni dopo, ma ha il merito di perseguire una sua linea integra: niente condizionamenti. La tragedia è qui. Nuda e cruda. I violini strazianti del grande John Williams diventano allora gli assoli al pianoforte del più illustre musicista franco-polacco, Frédéric Chopin, degno accompagnatore del più esimio regista franco-polacco, Roman Polanski.
Ancora una volta domina l'estraniazione, l'isolamento, la pazzia progressiva, il senso dell'irrealtà: solo che tutto questo fu quotidiano per anni nel protettorato polacco, sotto Fischer e sotto Frank. Forse era quello che Polanski avrebbe voluto dire con tutti i suoi film precedenti, pur bloccato dal pudore e dal dolore. Il protagonista aquilino e allampanato Adrien Brody è ottimo, ma è altresì encomiabile l'ufficiale tedesco ritagliato da Thomas Kretschmann, che dona umanità anche ai soldati nazisti, cosa troppo spesso sottovalutata per avventatezza e odio.
Contributo fondamentale la fotografia di Pawel Edelman, tutta giocata sul marrone, meno elegante del bianco e nero dell'altro polacco Kaminski per Schindler's List, ma più aderente all'iconografia dell'epoca. Si noti, ancora una volta, l'importanza attribuita dal filmmaker alle case, ai tetti, alla claustrofobia, veri temi conduttori del suo cinema.
In sostanza: il piccolo Polanski fa un film grande come la sua carriera. Forse solo con la saggezza della vecchiaia era possibile tentare di sciogliere la matassa di ricordi e di immagini addensatesi nei suoi occhi di bambino. L'autore di Frantic c'è riuscito senza lasciare spazio alla commozione gratuita. Ha dipinto sulla tela della Storia con asciuttezza e ha, probabilmente, chiuso il suo conto personale anche col Male, quel diavolo – da lui spesso tirato in ballo – che in realtà si celava nei volti degli uomini che gli distrussero famiglia e gioventù.
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