Nicolas Winding Refn: sfiorare l’essenza (violenta) dell’eroe PDF 
Gianpiero Ariola   

Partiamo dall’inizio, o meglio dalla fine dell’inizio. L’ultima scena di Pusher (1996), il primo lungometraggio firmato Nicolas Winding Refn, tronca bruscamente la difficile crisi del plot (quell’infaticabile corsa tesa al recupero del denaro) proiettando Frank, il protagonista, da una condizione di torbida sicurezza a una di lucido smarrimento, che paralizza il ritmo della sua progressione, congestiona il dinamismo di scatti nervosi e impulsivi, per instillare nella visione il balenante shock di una rivelazione. Il PP del suo volto catatonico (incredulo quand’anche ispirato) è accostato alla scena in cui Milo è intento con i suoi scagnozzi a predisporre la sua esecuzione, e alternata poi a quella di Vicky che si allontana in auto. A ciò si aggiunge una musica che, prevalendo sui rumori diegetici (piccoli acuti elettronici riverberati), contribuisce a creare un’atmosfera visionaria inattesa e spiazzante. Frank è folgorato! (1) Con estremo ritardo ma alla fine accade. Grazie a Vicky, egli sovverte la sua stagnante e destabilizzata prospettiva, sbaraglia il valore di quel ritmo forsennato che ormai lo incalzava e fa schizzare con la mente oltre lo spossamento. In Pusher II (2004) altra folgorazione conclusiva, altra svolta inattesa lanciata nella terra incognita dell’oltre del racconto. Il lampo che colpisce Tonny nell’atto di uscire dall’appartamento di Charlotte, dopo il piccolo furto, è la visione del bambino (anche qui sottolineata da un intervento sonoro di note elettriche sospese e ipnotiche), che lo porta a chinarsi su di lui, a stringerlo tra le braccia e infine a rapirlo, fuggendo in strada. Fino a questo momento l’azione, solcata da provocazioni ben iscritte nella parabola narrativa, aveva inceppato le reazioni istintive del protagonista in un loop di inettitudine e sconsideratezza (lo stesso omicidio del Duca non si profilava, in fondo, come una vera sorpresa per lo spettatore attento ai segnali d’allarme). In Pusher 3 (2005) il tragitto che rivela la perdita del controllo si attua con la trasfusione di vibrazioni da un’incrinatura climatica, che imbriglia il protagonista, Milo, nelle ansanti e tremolanti boccate di fumo (quasi frangenti proto-visionari sottolineati dall’incalzare di atmosfere elettroniche), alla discrasia senso-motorio che intacca la sua monolitica fermezza. Lungo la sequenza della trattativa con la maitresse e poi, poco dopo, durante il diverbio con la figlia, un’obliquità improvvisa è assunta dal corpo, fino ad allora tenuto saldo e ben inquadrato nonostante le ripetute provocazioni subite (si veda la posizione di Milo che prima si china sul corpo appena colpito dell’albanese e poi si accascia svaccato sulla sedia, con l’immagine stessa che ruota accentuando ulteriormente l’effetto di trasversalità). Un’obliquità dunque che, ancor prima di esplodere nel duplice omicidio, preludendo quindi al rilascio dell’ira, già consuma un destino, suggellando il declino di quelle folgorazioni conosciute nei primi capitoli e l’inaridimento di ogni fulminea propulsione.

Folgori e violenza
Ad ogni modo, la ragione per cui tali folgorazioni (colte o mancate) attecchiscono all’humus diegetico dei pusher è che questi sono figure in bilico dall’andamento ingolfato, esseri convulsi che lottano con un dissonante dispiegare di gesti, ostentati eppure fallimentari, onde non sprofondare nel moto risucchiante della fragilità. In tale sospensione e incertezza, i lampi della rivelazione trovano facilmente l’opposta polarità, anche se Refn ne trattiene il differenziale accumulato per l’intero svolgimento della trama, configurando eroi “minimi”, spesso difficili da ghermire, ma che sanno imprimere, nelle attese fruitive, invisibili e persistenti impronte. A misurarsi con le prime pellicole del regista danese si rischia dunque lo sprofondamento in pantani diegetici che brulicano di singolari fermenti e ognuno dei protagonisti, di fronte ad un susseguirsi di accidenti e incidenti, sembra un funambolo improvvisato, sospinto sempre più negli angoli bui di un vicolo ceco, attraverso continue sottrazioni di sostegni e un incalzante accumularsi di insolvenze. La camera del cineasta scandinavo li segue con quadri approssimanti, fatti di panoramiche ipercinetiche e piani ravvicinati, in cui l’ingaggio dei corpi e dei volti risulta quantomeno scivoloso; complice un montaggio compulsivo e di notevole frammentazione, si compromette in parte il processo di empatizzazione, lento e fluido per definizione, ma si inaridisce anche quel moto meditativo che aggrega concetti e frantuma storie e profili. Instillando nella percezione svolte sussultoree (per i movimenti della camera a mano, a cui si uniscono stacchi stranianti), corroborate da presenze sceniche esagitate che oscillano tra rigide ostentazioni e nervose, inibite affettività (si pensi alle difficoltà di Frank nell’abbracciare la fidanzata e la madre, alle trattative tese in cui le insicurezze e le paure affiorano microcineticamente nell’apparente calma, alle difficoltà di Tonny nell’avere un’erezione di fronte a due prostitute), Refn crea sostanzialmente evoluzioni disturbanti ma genuine, lavorando con piglio istintivo e tatto impeccabile una materia umana avvizzita, che gronda tanto del liquame di vite dissolute quanto dell’insofferenza eletta di insopprimibili marginalità. Ed è in questo sostrato degradato, popolato di esseri inadatti al mondo che vorrebbero abitare e di uomini che “non hanno esorcizzato le proprie paure” (come afferma il detenuto all’inizio di Pusher II), che il regista fa germogliare la violenza, una violenza che è tuttavia solo la ratio estrema dell’azione e sopraggiunge quasi come esigenza occasionale, preterintenzionale, perché nessuno dei tre protagonisti della trilogia ne è in realtà avvezzo. L’atto aggressivo risulta quasi un corpo estraneo di difficile metabolizzazione, e ciò vale anche per il Leo di Bleeder (1999), che deve convivere con la propria irascibilità e il proprio istinto manesco, provando puntualmente rimorso dopo aver agito con ferocia e facendo implodere in sé, con il suicidio, l’estremo incontenibile gesto. Il ricorso all’offesa brutale è dunque insorgenza scomoda nella melmosa inettitudine dei pusher, talora mero grimaldello simulatorio per ottenere rispetto, che può rivelarsi oggetto oscuro e ingestibile se portato allo stremo (si pensi all’aiuto che Milo deve chiedere al vecchio socio e amico Randovan), ma che comunque non perde mai quel sentore di linfa venefica e corrosiva.

A partire da Bronson (2008) però le cose cambiano, gli eroi assumono aspetti nuovi e si rendono capaci di influenzare l’ambiente circostante mentre la violenza si cristallizza in materia granitica. Qui sacrificio e autodeterminazione sovrastano e adombrano qualunque perdizione e precarietà e la violenza come pretesto spettacolare ed espressivo invade la dimensione dell’autonarrazione, ovvero esplora tutte le facce di una ostinata e mirabile consapevolezza. Nella sua quinta pellicola Refn mostra un istinto ferino che è ormai talmente incontrollabile e reiterato da risultare quasi solo l’innesco, uno come tanti, della finzione. Ecco perché la funzione riabilitativa dell’arte corre sul filo dell’ambiguità, che pur lasciando trapelare degli spiragli di efficacia rieducativa, in definitiva viene annichilita dalle ambizioni esibizioniste di Bronson, il quale anzi ne piega gli esiti a suo vantaggio. Canalizzando gli sforzi creativi della sua partitura performativa, egli non intende certo conformarsi alle regole altrui, che svilirebbero il proprio originalissimo protagonismo, ma piuttosto ne usa i mezzi onde sublimare i propri scopi. E lo fa non solo dipingendo, scrivendo e recitando ma anche facendo del proprio corpo, lo stesso con cui combatte, provoca e riempie la scena, lo strumento del successo, il terreno su cui misurare le proprie abilità. Come un artista contemporaneo, Charles pone le proprie membra a servizio delle sue opere, perseguendo un’interlocuzione di natura sociale (2) (indispensabile per l’agognato raggiungimento della fama), ma pure valicandone gli orizzonti, preparando l’epidermide (si cosparge di olio, si dipinge la pelle di nero) per l’atto spettacolare, dopo averlo opportunamente denudato, come fosse materia grezza su cui intervenire artisticamente, tela bianca vergine da segnare o puro blocco di marmo da intaccare. Ma non basta: la materia carnale si eleva quale profferta di sensorialità cinematica da modellare come tratto di geometrica iper-realtà. È dunque plausibile riscontrare, come sottolinea Spiniello, una certa lacunosità di realistico sforzo (3), che dovrebbe sottendere l’atto violento quale azione tragica e catartica, eppure qui la dialettica percettivo-espressiva ha tutt’altri intenti. La soglia del contenimento realistico è infatti squarciata con determinazione quasi affettata e la vibrazione delle tensioni muscolari, trasferite sinesteticamente lungo la visione, punta a disegnare nella ricezione aptica dello spettatore lo stimolo per una vigorosa sublimazione “estetica” (4). Persino in quelle scene ove la lordura e il degrado (spesso sottoforma di contrasti cromatici) spiccano invadenti, l’innesco senso-emotivo non ingaggia alcuna plausibilità concreta. L’obiettivo è dunque astrarre e comporre, con tutta la pregnanza che può richiamare non tanto quella via “cerebrale” quanto piuttosto quelle spontaneità e disinibizione, capaci di raggiungere anche superbi picchi di creatività, nella fattispecie di squisita aspirazione surrealista.

Sfiorare in discrezione l’essenziale
Tale via di messa in forma dei corpi, onde deflagrarli esteticamente mediante atti violenti, il cineasta danese l’ha tentata anche in Valhalla Rising (2009), astraendo con esasperazione la figuralità cromatica e tonale, che invece di sfociare ironicamente in una sollevante sortita nel burlesco e nell’assurdo conserva un plumbeo contegno senza sostanziali vie d’uscite, quasi imprigionando in un climax reiterato che angoscia tanto quanto strazia lo sguardo. Ma per Refn l’atto violento è esattamente il motore della creatività artistica, come afferma egli stesso (5). Il suo potrebbe passare anche per un gioco d’atmosfera, una prova di configurazione di un paesaggio e della sua contemplazione, la sua “messa in scena” in fondo tende a schiacciarsi verso la staticità di un tableau vivant, ma è proprio incorrendo nel rischio di annichilire ogni energia visiva potenzialmente umana e auspicabilmente corporea che si genera quella tensione esplosiva che impatta lo schermo (6). Il guerriero guercio e muto con un corpo intarsiato di agglomerati cicatriziali e pitture rituali stilizzate, quel guerriero in cattività che combatte come una furia animalesca, mordendo e strappando parti anatomiche così da iniettare di zampilli purpurei la superficie bruna dell’immagine, ma che insieme ha fulgori di veggenza, ecco quest’essere non appartiene alla sola umanità ma è un prodotto distillato dalla potenza mitica, è eccezionale risonanza nervosa di sostanza grezza e insieme archetipica. La sua voce è udibile solo in forma di ringhio sovrumano e sovrannaturale che si instilla - mediante concessione extradiegetica e quindi, in questo caso, divina - nella sua tenebrosa silhouette stagliata contro una foschia metafisica. Refn esegue dunque, rispetto alle sue prime opere, un’attenta ricerca sull’espressività corporea da coniugarsi strettamente con quella sul linguaggio verbale, passando dall’esibizione generosa e iper-modellata del detenuto Bronson, alla gotica concisione di One Eye, la cui densità visiva è fatta di segni culturali incastonati, come si è detto, tra natura ed extraumano, fino ad attraccare all’asciutta fisicità di Driver, che coniuga essenzialità gestuale con secca e tagliente laconicità. I personaggi refniani che nella trilogia Pusher scivolavano dall’appiglio visivo, nonostante le scosse procurate, ora invece si fanno sfiorare, si offrono quel tanto che serve a innescare un’intensa vertigine di contatto, pur serbando una prudente zona di inafferrabilità (l’untuosa e prorompente massa corporea di Bronson racchiude forse la summa simbolica di tale cifra figurale).

In fondo, nei suoi ultimi lavori, il regista di Copenaghen ratifica quanto sia restio a costruire figure accessibili e decifrabili; su di esse egli si dichiara totalmente disinteressato a fornire spiegazioni, non si premura minimamente di lasciar sedimentare tracce significanti, inducendole semmai a fluttuare sulla superficie dello schermo per poi disgregarle nella voluttà del transito narrativo (7). Le nuove istanze visive sono ormai implementate ed elaborate non più col nervosismo e l’inquietudine degli esordi ma con grande levità e senso del godimento. In Drive, infatti, l’agitazione corporea si concentra, celandosi sino ad estremizzare la stereotipia gestuale, nelle rigide pose del volto - affidata alla microcinesica poco volubile di bocca e occhi - e in quelle mani, spesso coperte da guanti (talvolta unte di grasso o “sporche” di ineffabili colpe, quando non intrise di sospetto), che si tendono in strette rabbiose, tamburellano sul volante per segnare e misurare l’attesa, si eclissano nelle tasche, si fanno carezzare da un palmo mentre tengono il cambio dell’auto e arrivano anche a picchiare chi mente per soffocarne i singhiozzi, senza remore per il suo sesso. Non c’è ulteriore parte del corpo che conti captare per essere trascinati nell’azione: la mano e il volto raccolgono tutta la tensione sufficiente a far vibrare quella congiuntura che si evolve, come si diceva, sempre a distanza di sicurezza. Nella sequenza in cui Driver si fa curare la ferita al braccio, egli è seduto nell’auto e una panoramica inquadra il PP della mano che sporge verso la mdp e si stringe in pugno per poi risalire fino al suo viso: non occorre altro da trasmettere allo spettatore, non vi è null’altro su cui puntare l’attenzione. Nella scena successiva, introdotta in dissolvenza incrociata, quasi per aprire un sipario, eccone pronta la vidimazione. Mentre la rigida maschera facciale avrà su di sé il fuoco della camera, il guanto che brandisce il martello pur se appare sfuocato inietterà nella percezione di chi guarda una fibrillazione precisa, anche se discreta e sottocutanea. Grazie anche al cambio di ritmo, che prima accelera e poi rallenta, e alla provocatoria “scenografia umana”, fatta di ballerine in topless, quel volto e soprattutto quella mano (che prima scivola lateralmente nella lenta panoramica e poi, in contre-plongée, campeggia in PPP sul fondo dell’inquadratura, compiendo il gesto di dischiudere e richiudere le dita) incorporeranno nella visione risonanze senso-motorie nette ma delicate, come quelle di un tocco che insieme lambisce e fende la superficie senziente.

Soggettive sonore condivise
Infine non si può trascurare come l’uso creativo del dispositivo filmico per Refn è palesemente un discorso audio-visivo, una miscelazione sapiente e ben congeniata di immagini con suoni, rumori e silenzi, facendo spesso assumere alla colonna sonora un ruolo di palese (ri)semantizzazione esterna, sia esasperando atmosfere già fortemente ipersature (come avviene per Valhalla Rising, ove la sensazione di solitudine e di silenzio è portata allo stremo da colpi gravi di percussione e fiati e di accordi elettronici cupi (8)), sia sfiorando i territori connotazionali del musical (si pensi a Bleeder, i cui personaggi sono introdotti da un differente brano musicale che cambia repentinamente ad ogni stacco dall’uno all’altro) e invadendo quelli del promotional video. In particolare per Bronson e per Drive sarebbe necessaria un’analisi approfondita dell’uso di ogni singolo brano di musica compilata, dai frammenti del repertorio classico fino agli inserti pop e di musica elettronica, per poterne apprezzare i brillanti risultati. Basti qui rammentare almeno le prime immagini del detenuto Bronson, mostrato in quello che sarà il suo ambiente naturale, una cella di reclusione con le sembianze di una grossa gabbia, mentre si sta allenando in un’atmosfera virata fortemente al rosso. Il brano che accompagna questa scena (The Elletrician dei Walker Brothers), con il cambio di ritmo ben sincronizzato con la svolta dell’azione (i secondini entrano nella cella per affrontare l’insubordinato recluso) tracciano un’estetica da videoclip, quasi uno spot (il che pare ancora più credibile dato che questo segmento è l’introduzione del protagonista, fatta inoltre in prima persona, e che ha un tono marcatamente teatralizzato ed enfatizzato). L’effetto che si ottiene non è tanto quello di introdurre il protagonista di un biopic quanto piuttosto quello di “lanciare” la hit della propria carriera, dando saggio di quel sensazionale animale da palcoscenico che era, artista maledetto e sregolato. Un effetto simile si ripete più oltre quando si alternano momenti della sua detenzione, anche con immagini sgranate, quasi come pixel televisivi, per terminare con le porte del corridoio carcerario che si chiudono a tempo di musica e con un vero e proprio numero di canto a cappella. Quella qui attivata è una mirabile intersezione di funzione auto-celebrativa della musica e funzione discorsivo-spettacolare.

In quanto a Drive, invece, l’interazione della colonna sonora con il flusso visivo realizza un interessante esempio di soggettiva sonora (9), strategia che permette alla musica di valicare i confini tra diegetico ed extra-diegetico, invadendo la dimensione mentale del personaggio, e creando atmosfere trasversali che nel fondere percezione reale e proiezioni individuali sono in grado di tessere fibre relazionali di grande raffinatezza (è ciò avviene anche per il grido citato di One Eye e per la scena in riva al lago in cui la musica esterna che squaderna distorsioni elettriche e opprimenti pulsazioni sembra dare voce all’orgia collettiva in cui ognuno pare immerso). In fondo, l’insinuarsi di una sorta di prospettiva acustica caratterizzava alcuni passaggi rilevanti della narrazione pure in lavori precedenti (la folgorazione finale di Frank, la scena del matrimonio per Tonny e certe derive “stupefacenti” di Milo), ma con la sua ultima opera Refn osa di più, offrendo un’oscillazione puramente mentale grazie al flusso delle note. Si pensi ad esempio alla scena della festa per il ritorno a casa di Standard: sul PP di Driver che armeggia con pezzi meccanici, nel suo appartamento, si ode una musica attutita che pare quasi un sottofondo esterno. Quando la macchina si sposta in corridoio si scopre invece che i suoni provengono dalla festa e ne abbiamo la conferma quando, sul PP di Standard, il volume si alza nettamente. Dopo alcuni stacchi vi è un PP di Irene a cui segue un PP di Driver. Fin qui niente di particolarmente impressionante se non fosse per il fatto che il volume della musica resta lo stesso, pur se l’azione si è di nuovo trasferita altrove. Si tratta di una chiaro intento di configurare una connessione tra i due amanti, che rinunciano ad esprimersi con le parole e si affidano a gesti semplici e a un’intesa mentale mediata dal linguaggio sonoro. Si potrebbe chiamarla soggettiva sonora condivisa, una sorta di trasferimento delle note ascoltate dal contesto di riproduzione prima alla mente della ragazza e poi alla percezione di lui, che nell’atto di riceve il “messaggio” ha uno sguardo fisso (poi lo muove lateralmente quindi si alza) quasi per avvalorare quanto la sua attenzione sia rubata da qualcosa che non è presente nella scena né tantomeno nel fuoricampo.

In generale l’intervento del suono nel cinema di Refn, sia nell’uso di brani pop sia con quei sound ambientali, è spesso teso a ritagliare siparietti in sospensione, pervasi di quella contraddizione tra sensibilità ed efferatezza. Il cineasta scandinavo gioca spesso sul contrasto tra la scabrosità del tema e il tono esultante della musica nonché sull’iperbolico raddoppio di intensità narrativa/sonora, ma ottiene anche effetti di spuria commistione tra sensualità e istinto omicida (il che vale sia per la scena dell’ascensore, ove Driver spinge dolcemente in un angolo Irene e la bacia mentre sta già meditando di uccidere il suo avversario - intanto nell’aria c’è un’atmosfera acustica di romantica evasione -, sia per la scena in cui il protagonista si reca a uccidere Nino: il suo scopo cruento è blandito dal brano extradiegetico, che sembra interpretare i sentimenti di Driver, di chiaro sapore malinconico). Ad ogni modo anche le costruzioni prettamente audio-visive del regista danese sembrano concorrere a produrre lo stesso tenue riverbero di levità tattile, che innesca una connessione tutt’altro che banale con quella patina inebriante palesata sullo schermo, ovvero con quella incredibile materia impalpabile di cui sono fatti questi folgoranti (reali (10)) eroi refniani.

Note:
(1) «La folgorazione è l’esperienza del fuori che ci piomba dentro e attecchisce tramite ustione, dopo aver incenerito la membrana divisoria, mentre la figura dell’altro balugina in una sintesi inedita». Jonny Costantino, Intro Dossier Folgorazioni, in «Rifrazioni. Dal cinema all’oltre» n. 7, p. 1.
(2) Cfr. Federico Pedroni, La violenza rivelatrice, in «Cineforum» n. 505, p. 39.
(3) Cfr. Aldo Spiniello, Bronson di Nicolas Winding Refn, in «Sentieri Selvaggi», [consultabile su internet all’indirizzo: www.sentieriselvaggi.it/318/43761/%E2%80%9CBronson%E2%80%9D,_di_Nicolas_Winding_Refn.htm].
(4) La forzatura del corpo messo in scena verso un’istanza trasfigurativa irreale pare realizzare in sé quella «espressione aptica astratta» teorizzata da Fimiani. Egli riconosce tale moto di incorporazione a quell’immagine filmica che sa ben declinare il passaggio dal movimento intenzionale delle membra a quello intenzionale di un elemento dell’ambiente, come ad esempio una fronda arborea mossa dal vento. Cfr. Filippo Fimiani, Occhi pieni e mani vaganti, in «Fata morgana» n. 12, p. 160 e segg.
(5) Cfr. Lucilla Grasselli (a cura), Nicolas Winding Refn su Drive: creazione di un eroe sui generis, in «Movieplayer.it», [consultabile su internet all’indirizzo: www.movieplayer.it/film/articoli/nicolas-winding-refn-su-drive-creazione-di-un-eroe-sui-generis_8591/].
(6) Bocchi sostiene che questa configurazione della violenza sia proprio la vena che attraversa la genialità di Refn, una violenza con cui l’uomo sa di non poter competere e che ritorna inesorabilmente in ogni epoca. Pier Maria Bocchi, Valhalla Rising, in «Cineforum» n. 488, p. 53.
(7) Innescando quello che Bocchi descrive come un approccio “fanciullesco”, che fa scelte con l’impeto e la sconsideratezza di chi è invaghito e innamorato. Pier Maria Bocchi, Drive, in «Cineforum» n. 505, p. 58
(8) Decisamente un buon esempio di congruenza sinestetica e insieme espressiva tra immagine e suono, ovvero di doppia affinità tra musica dai toni gravi/fotografia cinerea e musica dai tempi lenti/azione rarefatta, la cui insistenza monotona per l’intera pellicola produce un effetto di parossismo semantico che conduce appunto ad estremizzare il coefficiente lugubre e ancestrale del climax. Per i concetti di congruenza sinestetica e congruenza espressiva cfr. Cristina Cano, La musica nel cinema. Musica, immagine, racconto, Gremese, Roma 2002, pp. 130-1.
(9) La soggettiva sonora è sostanzialmente quella che Sergio Miceli descrive quale livello mediato. Cfr. Sergio Miceli, Musica e cinema nella cultura del novecento, Sansoni, Milano 2000, pp. 359-63.
(10) Real hero, esattamente come recita il titolo del brano dei College.

 


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