Alien 4: frullato spaziale alla francese PDF 
Mario Bucci   

Quando un film di successo ottiene dalla produzione il lasciapassare per un sequel, solitamente il successo è stato così alto, superiore alle aspettative, da convincere produttori, attori, distributori e sceneggiatori a trovare nuove strade per ripresentare ciò che di questo successo è stato determinante. Quando poi si arriva al quarto episodio di quella che diventa una vera e propria saga cinematografica, probabilmente il segreto di questo successo può anche correre il rischio di diventare troppo manifesto, come un imbarazzante nudo. Per evitare che questo accada, solitamente, una buona strategia è quella di trovare il regista più adatto ad interpretarlo, capace di ri-proporlo in maniera originale e non imbarazzante, o trovare un regista di appoggio che conduca il lavoro a termine entro i costi e i tempi produttivi, affidando completamente il successo del film ancora una volta ai suoi elementi vincenti.

Il caso di Alien 4 - La clonazione è un perfetto incrocio tra queste due soluzioni: viene scelto un regista capace e visionario come Jean-Pierre Jeunet (per giunta europeo e non americano) e gli viene offerta una storia che è una sorta di sintesi degli elementi vincenti dei primi episodi. Il risultato, come si può immaginare, è un ibrido esperimento cinematografico, che non lascia il segno. Il film allude per tutta la sua durata all’idea del doppio (la clonazione): doppio parto iniziale (l’alieno riprodotto in laboratorio e il clone di Ripley nella torre), doppio conflitto interno al gruppo (in quello dei contrabbandieri e nel gruppo di alieni prima di liberarsi), costanti rapporti a due tra i personaggi (Vriess sulla carrozzina e il suo compagno con i dredd; il clone e l’androide; le due regine). Insomma, un gioco di ripetizioni che spesso arranca in cerca di intuizioni d’appoggio. Ciò sul quale si lavora, allora, per rendere appetibile questo costante rapporto a due, è il sistema del capovolgimento: per i militari che gestiscono la nave spaziale, Ripley (il suo clone ovviamente, numero 8) è il problema e l’alieno la vera risorsa, così come i cattivi (il gruppo di contrabbandieri spaziali) sono gli eroi e i militari e gli scienziati i nemici. In realtà questa strada, più che una presa di posizione “politica” alla Carpenter o alla Romero, sembra nel caso di questo blockbuster più una scelta produttiva che un vero “applicarsi” alla forma della scrittura cinematografica. Il sistema del ribaltamento tocca la sua punta più nauseante nell’immersione sottacqua, con i due contrabbandieri legati di spalle: una sequenza tirata (per i capelli) che termina con il suicidio di uno dei due sulla scala, al termine di un estenuante tentativo di portare l’interesse del pubblico su qualcosa.

È a questo punto, infatti, che ci si domanda cosa potrebbe spingere lo spettatore ad interessarsi al film. Cosa piace della saga Alien? La mostruosità dell’alieno. Ecco allora accontentati tutti, dai titoli di testa, in quella che sarà un’orgia di carne mista ed incroci impossibili da isola del dottor Moreau (la nave spaziale è in fondo un’isola nel mare infinito). Chi può contrastare questa mostruosità che tanto ci piace? La potente Ripley (ancora lei, Sigourney Weaver, co-produttrice del film), il secondo elemento di questo successo: una donna Rambo (il primo dialogo nella sala mensa ricorda davvero quello tra il sergente Trautman e John in Rambo 2 - La vendetta) che, morta suicida duecento anni prima, risorge in laboratorio, ancora una volta con lo stesso gene, forse con stralci di memoria e un’anima che è più una parola su una sceneggiatura che un approfondimento del tema. Ripley subentra allora a capo del gruppo di contrabbandieri (perché un gruppo può avere un solo leader, e Ripley è l’elemento principale del film, non può avere un collega di pari livello) e il film può avere inizio. Isolati quindi i due elementi fondamentali di questa saga, l’alieno e Ripley, bisogna miscelare entrambi i supporti in un countdown che ci faccia capire due cose fondamentali: che l’ansia è la madre di tutte le attenzioni cinematografiche, e che prima o poi questa storia avrà una fine. Questo meccanismo, del conflitto e della scadenza, è nel dna del questo progetto cinematografico Alien, estratto dal primo episodio, e riproposto, sempre, nella stessa identica formula, in tutti gli altri.

Ciò che Jeunet ha potuto aggiungere, allora, è stato il suo sguardo sbilanciato e diagonale (sempre dall’alto o dal basso) alternato ad una estetica bilanciata, centrale invece, e sostenuta sempre da carrelli frontali o laterali. Un compito dunque portato a termine secondo le regole della produzione cinematografica americana, che ha memorie fotografiche del suo primo successo, Delicatessen (in entrambi i film c’è sempre l’attore Dominique Pinon, qui bloccato su una sedia a rotelle), in quella che sembra più una vetrina statunitense per il suo lavoro che un coraggioso intervento su un prodotto cinematografico forse già pronto, e che andava solo frullato e versato nel giusto bicchiere. Le brevi allusioni iniziali, alla memoria e all’anima (resurrection), che potevano aggiungere qualcosa al film, vengono messe da parte dopo il set up, per un frappè di sparatorie e omaggi alle macabre visioni di HR Giger, che culminano con un frullato intestinale che non lascia dubbi su una indigesta conclusione.

Infine il titolo, la forma con la quale questo prodotto viene distribuito, offerto ad un pubblico di voraci e affezionati consumatori. In lingua originale il film allude alla resurrezione (Alien: Resurrection), idea che probabilmente in Italia (paese cattolico che avrebbe potuto male interpretare questo titolo) è stata messa da parte per un più concreto Alien - La clonazione.  Se quindi al pubblico avessero lasciato almeno un diverso grado di interpretazione, con la proposta del titolo italiano, invece, anche questa ultima possibilità viene negata, e non lascia alcuna speranza alla memoria di questo film, passaggio a vuoto nella filmografia del regista francese.

TITOLO ORIGINALE: Alien: Resurrection; REGIA: Jean-Pierre Jeunet; SCENEGGIATURA: Joss Whedon; FOTOGRAFIA: Darius Khondji; MONTAGGIO: Hervé Schneid; MUSICA: John Frizzell; PRODUZIONE: USA; ANNO: 1997; DURATA: 104 min.

 


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