Ha i metal detector all’ingresso, il liceo del Queens protagonista di questo film del 1999, firmato da Craig Bolotin. Eppure, fin dalle prime battute, affidate alla voce narrante del protagonista, sembra chiaro come, nonostante un poliziotto sorvegli i corridoi, gli studenti non diano i segni tipici della delinquenza giovanile che la corposa cinematografia, soprattutto statunitense, ha raccontato per contesti del tutto simili. Ecco perché l’escalation inarrestabile che porta al ferimento, e al successivo sequestro, del poliziotto a opera dei sei ragazzi protagonisti è quasi inaspettata. La pellicola mette dunque assieme sei adolescenti (Usher Raymond, Rosario Dawson, Robert Richard, Fredro Starr, Sara Gilbert, Clifton Collins Jr.) con storie e provenienze differenti, accumunati dalla mancanza di prospettive, stipati in una struttura degradata dove le aule non solo non sono sufficienti, ma presentano vistose problematiche, come finestre rotte che rendono impossibile il normale svolgimento delle lezioni. L’insegnante alla “carpe diem” c’è, ma invece di far salire i ragazzi sui banchi, li fa uscire dalla scuola, perché a quanto pare si riesce a far lezione solo al bar del quartiere. La spirale di violenza che si dipana lungo il film inizia proprio dall’anonimo bar, dove un ex-studente del nostro professore tenta una rapina a mano a armata. Basterà che l’insegnante preferito dai ragazzi venga sollevato dall’incarico per innescare la reazione incontenibile dei nostri protagonisti.
È chiaro che dietro i gesti estremi e la follia delle loro scelte, i ragazzi nascondano ragioni profonde che non solo riguardano la loro vita scolastica, ma pure quella oltre le mura del liceo. La contrapposizione tra il mondo degli adulti (il preside, il poliziotto, i genitori) è piuttosto manichea, come lo è, almeno in parte, il modo il cui la pellicola arriva a dire che in fondo le due categorie non sono poi così diverse tra loro e che il dolore che la vita spesso fa provare, come una livella, omologa neri e bianchi, poliziotti e ragazzi, genitori e figli. Il film, in questo senso, ha limiti notevoli, ma riesce a intercettare e restituire, seppur in una forma drammaturgica poco pretenziosa, almeno una paio di emergenze attuali, sulle quali la pellicola arriva a far riflettere. Innanzitutto, il pericolo legato a tutte le forme di pregiudizio, generazionali e razziali. La tensione emotiva tra il poliziotto (Forest Withaker) e Lester (Usher Raymond), infatti, nasce esattamente laddove l’agente agisce come se già conoscesse le intenzioni, e quindi il carattere, del ragazzo. A questo si lega la difficoltà di espressione (che il narratore riversa sull’arte del disegno) in un mondo che non sembra interessato ad ascoltare ciò che le nuove generazioni hanno da dire. Il più grande fallimento della società e della scuola sta tutto qui: nell’incapacità di fornire modalità pacifiche d’espressione e capacità di ascolto nei confronti di chi un giorno sarà un adulto.
Ecco dunque che la disperata voglia di farsi sentire a tutti i costi genera reazioni violente, scatena quella guerra che il protagonista vuole essere fiero di raccontare, esattamente come il padre lo era nei confronti della Guerra del Vietnam. Forse è proprio in quest’affermazione il senso più importante del film di Bolotin, che, seppur dal punto di vista registico regala giusto qualche trovata furbetta (si veda il flashback finale), riesce a suo modo a raccontare la crisi di valori e l’incomunicabilità intergenerazionale che la società, universalmente intesa, non sembra riuscire a colmare.
Titolo originale: Light It Up; Regia: Craig Bolotin; Sceneggiatura: Craig Bolotin; Fotografia: Elliot Davis, Kareem Rogers; Montaggio: Wendy Greene Bricmont; Scenografia: Lawrence G. Paull; Costumi: Salvador Pérez Jr.; Musiche: Harry Gregson-Williams, John E. Rhone; Produzione: Edmonds Entertainment Group, Fox 2000 Pictures; Distribuzione: 20th Century Fox; Durata: 99 min.; Origine: USA, 1999
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