Il cinema di Paul Thomas Anderson nasce da un paradosso. Nonostante la sua pienezza stilistica, il suo procedere per accumulo di segni, di traiettorie, di suoni, si costruisce a partire da un’assenza, una mancanza fondamentale. È un cinema del vuoto, reso visivamente alla perfezione nelle fughe prospettiche di Ubriaco d’amore (forse il film di Anderson più sottovalutato). Il timido e nevrotico Barry Egan (Adam Sandler) è spesso in un angolo, in una porzione limitata dello spazio inquadrato, intorno alla quale non c’è nessuno. Corse per strade deserte, lunghe camminate tra i banchi di un supermercato vuoto, bianchi e asettici corridoi di condomini che sembrano ospedali o, peggio, manicomi, imbarchi d’aeroporto deserti. Barry è solo, come l’ultimo uomo sulla terra. Ma ecco che, come per magia, quando conosce Lena (Emily Watson) lo spazio si riempie. Un bacio incantato alle Hawaii e, intorno, un nugolo di gente. L’incontro con Lena riempie il mondo di persone, ridà vita e movimento allo spazio. Amare è intravedere una via d’uscita. Ma da cosa? Qual è quest’assenza fondamentale, con cui tocca prima o poi fare i conti? È la mancanza di una linea di congiunzione tra padri e figli. Il cinema di Anderson è sempre un cinema di orfani, in cui i genitori e i figli non trovano più un contatto e in cui bisogna ripercorrere la strada che separa dai propri affetti. L’inizio di Sydney (Hard Eight, 1999) è proprio questo, un movimento, un gesto fisico di attraversamento dello spazio. Il vecchio giocatore Sydney (Philip Baker Hall) riempie la distanza tra sé e John (John C. Reilly), che siede solo, disperato all’entrata di un locale di una tavola calda. “Mia madre è morta, devo seppellirla” rivela John, che ha perso tutto al gioco nella speranza di pagare il funerale. Un orfano e un padre assassino, senza figli, che si ritrovano l’uno di fronte all’altro per ricostituire una relazione negata, ma non impossibile. Ed ecco che entrano in gioco, come sul tappeto del black jack, affetti, sbagli, rimorsi, speranze e sensi di colpa. In Hard Eight ognuno è alla ricerca della strada dolorosa che riporta alla fiducia, ognuno s’impegna ad amare nel miglior modo possibile. Il vecchio gangster ama come può, insegnando al ragazzo i trucchi del gioco, facendolo incontrare con Clementine, tirandolo a modo suo fuori dai guai. John e Clementine si amano come possono, tra crisi isteriche, errori madornali, schiaffi, urla, peccati e pentimenti. È la ricostruzione faticosa di una famiglia distrutta in partenza. Anche il long take iniziale di Boogie Nights (1997), oltre che un sotterraneo omaggio allo Scorsese di Mean Streets, è un viaggio in perlustrazione, una misurazione dello spazio della distanza fisica da colmare. È una misurazione approssimativa, in cui cambia sempre il punto di riferimento, a sottolineare la difficoltà dell’operazione. Boogie Nights non è solo un viaggio negli splendori e nelle miserie del cinema porno, ma, ancora un volta, il tentativo di (ri)trovare una famiglia. Il litigio irreparabile di Dirk (Mark Wahlberg) con la madre spezza definitivamente legami già risolti. Anderson non ce ne spiega sino in fondo le motivazioni (gelosia morbosa della madre, desiderio di autostima e affermazione del figlio), ma non importa, perché quella separazione è il dato acquisito da cui parte ogni storia e ogni esistenza. E ogni storia è fatta di fili strappati da ricucire. Il regista hard Jack Horner (Burt Reynolds) e la pornostar Amber (Julianne Moore) diventano il padre e la madre di una comunità di figli fisicamente superdotati, ma emotivamente fragili. Una famiglia anch’essa precaria. Perché, per quanto ogni personaggio viva già dentro di sé il trauma della separazione e del distacco, è impossibile non compiere gli stessi errori. Quali siano i padri o i figli, ci saranno sempre altre fratture, altre crisi, che produrranno le loro cicatrici. Ognuno cerca a tentoni la strada al cuore degli altri e si vive l’ansia di una normalità più ideale che reale (quella tenerissima di Buck/Don Cheadle che cerca disperatamente i soldi per aprire un suo negozio e rifarsi una vita), una normalità che in ogni caso si conquista a caro prezzo, per vie eccentriche e traiettorie centrifughe, e che, pur conquistata, è sempre rimessa in gioco. Alla fine, in un altro mirabolante long take, Jack Horner ripercorre di nuovo tutta la distanza che lo separa dai suoi “figli” e da sua “moglie”. È ora lui il punto di riferimento su cui ridisegnare quelle scie d’amore, sempre in equilibrio precario. Perché nel chiuso del suo camerino, il figlio Dirk, si confronta ancora col suo ingombrante totem padre/modello/salvezza/dannazione. Il cinema di Anderson diventa sempre più nucleare, “arcaico”. Il dramma fondante è vissuto nel cerchio della tribù originaria. Che cosa è Magnolia (1999) se non una grande tribù di padri e figli che fanno tutti capo all’unico patriarca/produttore Earl Partridge (Jason Robards)? Il re sta morendo e con lui tutto lo show, lo spettacolo messo in piedi per costringere gli spettatori a vedere e celebrare la sua potenza. La finzione mostra le sue crepe e, sepolte da troppo tempo, le tensioni tornano a galla per esplodere in un crescendo implacabile. Il caso ricollega tutto e tutti, come la colonna sonora ininterrotta, quella partitura musicale che di film in film diventa sempre più ossessiva. Ma il caso segue il disegno di un destino nascosto, che inesorabilmente porta allo show down finale. In Anderson c’è sempre un momento in cui non si può più fuggire e in cui tocca affrontare il destino. Ognuno può compiere i percorsi che crede, seguire le sue vie di fuga, quei corridoi infiniti, che sembrano sempre più guardare a Kubrick, alle sue simmetriche prigioni: Frank (Tom Cruise), come lo stesso Barry Egan…Ognuno può guardare alla droga (i personaggi di Boogie Nights, Claudia/Melora Walters in Magnolia) e al suicidio (Little Bill/William Macy, Linda/Julianne Moore, Jimmy Gator/Philip Baker Hall) come a una soluzione, oppure al colpo sensazionale del riscatto (Donnie/William Macy), ma sempre e comunque deve tornare al punto di partenza, al confronto risolutivo. Aldilà delle ferite, il cinema ci riconduce a forza a sfidare le paure più grandi, come quella muta sofferenza che separa il petroliere Daniel Plainview dal “figlio” H.W. E sempre e comunque si arriva alla resa dei conti con se stessi, la propria escandescenza incontrollata, il proprio doppio malato (Eli Sunday/Paul Dano) da uccidere in un battesimo di sangue, un suicidio di purificazione dal nostro fanatismo da profeti e onnipotenti. Occorre abbattere il totem, quel pozzo di trivellazione innalzato a gloria della nostra ossessione. Ecco il destino. Guardare dritti al nostro cuore nero petrolio e al nostro dolore, oltre i quali c’è ancora una volta l’amore, quella promessa di liberazione che si manifesta come un’epifania. Una pioggia di rane o un pianoforte che cade dal nulla, nel silenzioso deserto della strada.
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