Io sono qui. Le origini di un’icona documentate da D.A. Pennebaker PDF 
Gianmarco Zanrè   
ImageEsistono diversi modi di fare cinema, non soltanto per quanto concerne la fiction. Gli ultimi anni, infatti, hanno visto tornare alla ribalta il documentario non più soltanto come una branca elitaria della settima arte, quanto come un importante mezzo di comunicazione in grado di coinvolgere ogni tipo di pubblico, sensibilizzandolo su temi, fatti, persone più o meno lontani da lui. All’interno di questa così importante “sezione” del poliedro cinema, i metodi d’approccio ed interpretazione hanno assunto quasi più sfumature che i generi canonici della stessa fiction, spaziando da opere in cui il, o i registi, divengono quasi protagonisti più che narratori - su tutti Michael Moore -, ed altre in cui l’uomo dietro la macchina da presa si subordina completamente alla materia analizzata (il Demme di The Agronomist o l’ultimo Herzog). Per quanto non sia figlia di quest’ultima ondata, ma, più propriamente, una lontana, preziosa parente riscoperta anche grazie alle più recenti fatiche di Scorsese (No Direction Home: Bob Dylan) ed Haynes (Io non sono qui), Don’t Look Back appartiene, di certo, alla seconda categoria.

ImageUno dei tratti distintivi dell’opera di Pennebaker, e, senza dubbio, uno dei suoi maggiori pregi, risiede nell’invisibilità del suo regista, che, parafrasando lo stesso titolo, senza guardarsi indietro, fornisce un ritratto unico e quanto mai reale di quella che, a tutti gli effetti, è stata, ed è tuttora, pur se in misura minore, un’icona del panorama musicale mondiale: Bob Dylan. Al regista pare non interessare l’idea di sottoporre allo spettatore quella che potrebbe essere la sua stessa posizione, in merito all’opera, o al personaggio pubblico e privato, quanto, semplicemente e sfruttando la via più diretta possibile, mostrare chi, come e cosa è stato in grado di osservare dello stesso cantautore nel corso del lungo tour che lo vide protagonista in Inghilterra a cavallo dell’ormai lontano 1965.

ImageChi era, allora, Bob Dylan, acclamato da giovanissimi fan che intravidero in lui il cantore di una generazione che si preparava alla rivolta, criticato dai giornalisti che lo definirono comunista e anarchico, capostipite dei folk singers di tradizione statunitense e che dallo stesso performer furono più volte irrisi, ammirato dai compagni di viaggio, consci del gap che separava il loro talento dal suo? Quello che emerge dal lavoro di Pennebaker, e dal recente lavoro di Haynes - che non a caso ne “frammenta” l’identità -, è che Bob Dylan, era tutto, e niente, di ciò che, dall’esterno, chiunque si potesse aspettare da lui. Dal ragazzo immobile ad ammirare le chitarre esposte in una vetrina dove campeggia il nome di uno dei suoi singoli di maggior successo dell’epoca (Subterranean Homesick Blues), senza neppure notarlo, allo strafottente “divo” che irride la stampa e, in tono minore, le giovani fan, affermando tra le risate di essere un cantante migliore di Caruso, all’artista il cui carisma influenza, anche e soprattutto indirettamente, altri artisti che gli si radunano attorno, fino al padre che rimprovera un ospite del suo entourage per aver lanciato un bicchiere dalla finestra dell’albergo.

ImageTutto, niente, molto di più. Come ognuno di noi. Nel corso di un insolito quanto mai difficile confronto con un giovane aspirante reporter, nonché studente di scienze, Dylan sottolinea più volte quanto l’importanza stia nel fatto di essere tutti uguali, e non presupporre nulla da nessuno, a meno che lo scambio non sia vicendevole e da entrambe le parti riconosciuto come funzionale alla propria crescita interiore. Anche se, sono convinto, questa interpretazione del suo discorso, lo avrebbe fatto ridere anche di me, che ora, a distanza di quasi mezzo secolo, scrivo di un dialogo di cui difficilmente lo stesso Dylan potrà ricordare. Ma, in fondo, non credo importi. Come, allora, non credo importasse a lui. Semplicemente, tutto ciò che in un ormai lontano passato Robert Zimmermann sentiva di suonare, e cantare, e scrivere, lui cantava, suonava e scriveva, vivendo la sua vita, lasciando al pubblico, a Pennebaker, a chiunque gli stesse intorno o lo intervistasse, la libertà di trarre, dalla sua persona e dalla sua opera, quello che liberamente poteva pensare.

ImageTornando ad Haynes e alla sua ultima pellicola, credo che il segreto di Dylan, così come del regista di questa piccola, ma certo fondamentale pietra miliare del suo genere, fosse, al contrario di quanto reciti il nome della pur bellissima opera premiata al Lido - pur se solo con un contentino -, quello di esserci. Così com’era. È questo il più importante testimone raccolto da Pennebaker, non soltanto in merito a Dylan, o alla materia portata sullo schermo, ma anche, e in misura ancora maggiore e importante, rispetto al documentario come forma d’arte, narrazione, testimonianza. Certo, la coscienza, da amanti del cinema, porta a non accostare l’autore a Flaherty o ai padri del documentario stesso, quanto più a considerarne Pennebaker, almeno rispetto a questo lavoro, come un suo ottimo interprete, capace di trasmettere, tramandare e, per l’appunto, documentare, senza invadere una sola volta lo schermo, e, al contempo, senza rinunciare a donare all’opera un tocco personale in merito a stile e gusto estetico: splendide, su tutte, le immagini della chiusura del concerto alla Royal Albert Hall, e l’unico frammento che, in qualche modo, mette in gioco l’autore della pellicola, all’apertura delle porte della stessa, trionfale data di quello storico tour. Il vetro di uno dei battenti riflette, per pochissimi secondi, l’occhio attento della macchina da presa, testimone fino a quel momento invisibile di quelle settimane vissute on the road, da tutti i punti di vista.

ImageQuesto può essere considerato il lavoro di Pennebaker: una sorta di road movie di insolita, sofisticata, delicata discrezione, per mezzo del quale molti fan, ascoltatori, amanti della musica non soltanto come intrattenimento ma come strumento di lotta ed emancipazione sociali, di evoluzione culturale, possono osservare, partecipare, assistere, vivere, in qualche misura, l’umanità non priva di difetti di un’icona che, come tutte le appartenenti alla categoria, rischia di essere travisata e trasformata in un mito senza giustificazioni. In questo senso, non posso che essere d’accordo con Dylan stesso quando, a più riprese e come già sopra citato, afferma semplicemente che le persone sono tutte uguali. Fosse per presunzione, almeno allora, non posso e non voglio saperlo. Ma, in qualche modo, il bersaglio è stato centrato. In una delle sue canzoni più note e rappresentative Bob Dylan recita: “The times, they are changin’…”. I tempi stanno cambiando. Che sia davvero stato così, o che lo sarà, non credo importi davvero, in qualche modo. La differenza, sembrano suggerire il cantante con le sue “gesta” e il regista con la sua silenziosa, paziente arte, sta, e starà sempre, nell’esserci, ogni volta che questo accadrà
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Scheda film

TITOLO: Don’t Look Back; PAESE: USA; ANNO: 1967; REGIA: D.A. Pennebaker; SCENEGGIATURA: D.A. Pennebaker; MONTAGGIO: D.A. Pennebaker; FOTOGRAFIA: Howard Alk, Jones Alk, Ed Emshwiller, D.A. Pennebaker; MUSICA: -; DURATA: 96'
 


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