Radio Killer PDF 
di Giampiero Frasca   

Qualcuno ha scritto che se è vero (come è vero) che il viaggio rappresenta la metafora dell'esistenza degli Stati Uniti, il Road Movie è la rappresentazione disillusa della cattiva coscienza del Paese. Nato, infatti, alla fine degli anni Sessanta come rielaborazione del western - di cui, in concomitanza con la crisi e il successivo tentativo di rinascita degli Studios, oltre che dell'allora imperante Controcultura, ristrutturava e ribaltava l'epica nella quale tutta una nazione si era riconosciuta per decenni -, il Road Movie ha mostrato, in tono talvolta accusatorio, il lato più nascosto e cruento di un'America opprimente e reazionaria che pareva aver smarrito quei valori che ne avevano animato lo spirito e le dinamiche almeno da Philadelphia '776.

Se negli anni Settanta il neonato genere si incaricò di mostrare le nuove istanze ribellistiche giovanili destinate a concludersi tragicamente (si pensi non solo al facile esempio di Easy Rider [Dennis Hopper, 1969], ma anche a Punto zero [Vanishing Point, Richard C. Sarafian, 1971], a La rabbia giovane [Badlands, Terrence Malick, 1973] o a Sugarland Express [The Sugarland Express, Steven Spielberg, 1974]), nel decennio successivo, placatisi in modo quasi totale i fermenti contestatori nei confronti del Sistema, il Road Movie imboccò la strada della contaminazione dei generi per garantirsi la sopravvivenza, e grazie al thriller ebbe la possibilità di raccontare una nuova temperie fatta di paura per la propria incolumità individuale in un mondo che aveva metabolizzato male l'aspirazione alla libertà dei 70s e aveva assunto la proliferazione economica e l'edonismo a proprio credo esistenziale. Film come The Hitcher (Robert Harmon, 1986) e Le strade della paura (Cohen and Tate, Eric Red – già sceneggiatore di The Hitcher -, 1988) non dicevano niente di nuovo che non fosse stato già mostrato da alcuni noir on the Road anni Quaranta e Cinquanta, ma riprendevano filtrandole le paturnie tecnologiche e metafisiche di Duel (Steven Spielberg, 1972) e de La macchina nera (The Car, Elliot Silverstein, 1977), innervandole di brividi e di tensioni incomprimibili che la strada ospitava come scenario di un nuovo orrore.

Radio Killer di John Dahl parte da qui, nonostante il Road Movie nel corso degli ultimi anni abbia dimostrato più volte che la strada come metafora della vita (Una Storia Vera [The Straight Story], David Lynch, 1999), anche in contesti di nuovo oscurantismo (il maschilismo opprimente di Thelma & Louise [Ridley Scott, 1991]), conduce necessariamente alla fine delle illusioni proprie di un'epoca disingannata (Fandango, Kevin Reynolds, 1985) a causa dell'impossibilità di procedere linearmente perché tutto ormai è già stato visto e scoperto (Belli e dannati [My Own Private Idaho], Gus Van Sant, 1991). E allora, c'era bisogno di un nuovo Road Movie quando le pellicole citate paiono aver già autorevolmente scritto la parola fine sul genere? Forse sì, visto che Radio Killer (da non confondere con Outside Ozona di J. S. Cardone [1998], passato nel mercato home video italiano con lo stesso titolo del film di Dahl) è un Road Movie anomalo che utilizza la superficie stradale come mero pretesto per narrare una storia di scherzi beffardi che si ritorcono in atroci delitti e in una violenza esibita per generare tensioni raccapriccianti, pronte a deflagrare improvvisamente con un effetto che Hitchcock chiamerebbe di sorpresa.

Dopo tanti esempi più o meno riusciti come Kalifornia (Dominic Sena, 1993), BreakdownLa trappola (Jonathan Mostow, 1997), Highway to Hell (Ate de Jong, 1992), Motor Psycho (Alex Downs, 1992), American Perfekt (Paul Chart, 1997), Cold Around the Heart (John Ridley, 1997) e il già citato Outside Ozona (in cui la radio del titolo italiano è una stazione tra Texas e New Mexico ascoltata dalle vittime di un serial killer), il Radio Killer di Dahl mette in scena due fratelli differenti (cialtrone il primo, Fuller, compassato e belloccio il secondo, Lewis) minacciati da un folle omicida alla guida di un TIR che pare proprio non aver gradito uno scherzo subito tramite un radiotrasmettitore CB installato nell'auto dei fratelli Thomas (una Chrysler Newport del 1971, quasi il veicolo stesso diventasse una sorta di omaggio agli anni d'oro del genere). Il grosso autoarticolato non ha più la valenza di minaccia tecnologica che possedeva l'autocisterna di Duel, ma rappresenta pur sempre l'angoscia che si insinua incombente nell'equilibrio quotidiano per turbarlo e devastarlo con le sue dimensioni di Leviatano contemporaneo. La concettualità espressa solitamente dal Road Movie viene completamente assorbita e reinvestita in Radio Killer: la strada, come già molti esempi degli anni Ottanta hanno dimostrato, non ha più quella valenza di illusoria liberazione da un Sistema claustrofobico che possedeva più di trent'anni fa, ma è diventata mero décor che fa da sfondo alle vicende dei personaggi. La strada non si ammanta più di una problematicità semantica che coltivi l'ambizione di andare aldilà della pura tensione originata dalla presenza/assenza del camionista assassino, visto che in Radio Killer l'esistenza delle highways è relegata in una dimensione già definita dalle modalità del genere: l'abituale striscia d'asfalto del cinema on the Road nel film di Dahl rappresenta lo scenario privilegiato di tutto un canone narrativo, ne assume l'iconografia fatta di sublimi spazi sterminati, di orizzonti lontani che si perdono in punti di fuga irraggiungibili e di nastri 'a doppia corsia' che si dispiegano in modo apparentemente infinito, ma evita qualunque tipo di dialettica con l'interno dell'auto e quindi con i personaggi della storia.

Se il Road Movie 'classico', ammesso che di classicità si possa parlare in un genere che deriva per meiosi culturale da altri generi, istituiva una sorta di loop comunicativo che metteva in stretta connessione il paesaggio circostante con l'interno dell'automobile in movimento sull'asfalto, in modo da creare una interdipendenza sostanziale e metaforica che ne palesasse il carattere ideologico e critico verso un'intera cultura, il film di Dahl (il cui titolo originale è l'antifrastico Joy Ride) nega qualunque rapporto dialettico con il contesto spaziale e concentra la sua attenzione esclusivamente all'interno dell'abitacolo dei fratelli Thomas (con la compagnia successiva di Venna). Dahl opera una destrutturazione dello spazio, confinandolo iconograficamente in una posizione parallela, assolutamente disgiunta sul piano del significato alla vicenda narrata. Il paesaggio è utilizzato soltanto come equivalente di un establishing shot classico, in modo da assecondare l'abitabilità della scena a livello spettatoriale, ma senza la volontà di istituire un nesso con l'esterno: nessuna soggettiva dei personaggi supera il parabrezza dell'auto o si espande al di là del finestrino laterale, perché la minaccia arriva sì dall'esterno, ma si veicola all'interno dell'abitacolo per mezzo del 'baracchino' CB. Il radiotrasmettitore, inoltre, è mostrato con le caratteristiche di un vero e proprio personaggio e non con le caratteristiche di inserto oggettivo con cui nel Road Movie sono restituiti spesso gli elementi che appartengono all'auto (tachimetro, leva del cambio, volante ecc.): il 'baracchino' è sempre l'inquadratura fondamentale di un campo/controcampo che vede nell'altra immagine uno dei fratelli Thomas; in più il radiotrasmettitore è dotato di parola, perché è l'elemento di cui si serve il killer per comunicare le proprie minacce a Lewis e Fuller. Il quadro che raffigura l'apparecchio, quindi, è assimilabile a un autentico primo piano perché è la diretta emanazione di un minaccioso assassino che gravita nell'arco di cinque miglia (tale è infatti il raggio d'azione delle onde dell'apparecchiatura).

Lo pseudo Road Movie di Dahl è interessato alle dinamiche interne ai personaggi e appare poco propenso al lirismo del contesto spaziale di riferimento, perché ciò che conta è la tensione che si origina e germina tra le figure dentro l'angustia di spazi che rappresentano il capovolgimento dell'illusione scenografica che il genere solitamente offre: le scomode stanze di motels, gli interni delle stazioni di benzina, lo squallido retro di un alberghetto di quart'ordine, lo stesso posto di guida dell'auto sono il ribaltamento inquietante di un tentativo di fuga da un assassino che non ha volto, ma soltanto voce e reazioni. Così come in Duel e ne La macchina nera, il killer non si vede, ma a differenza di queste due pellicole la vittoria finale non può essere definitiva: il camionista psicopatico chiama Lewis con il radiotrasmettitore e gli comunica che l'uomo al posto di guida del TIR non è lui. La caccia è ancora aperta e non può concludersi, perché l'angoscia è connaturata all'uomo moderno e non può abbandonarlo.

 


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