Magdalene PDF 
di Mauro Brondi   

Il film di Mullan, vincitore alla Mostra Cinematografica di Venezia 2002, pone inconsapevolmente una questione importante: riesce il cinema di finzione a documentare e denunciare i fatti della Storia?

Se si dovesse rispondere vedendo il solo Magdalene la risposta sarebbe: no. Il film da questo punto di vista non convince per una estremizzazione dei caratteri e per un eccessivo zelo pedagogico. Si è accomunato Mullan a Loach (vedi Sentieri selvaggi) ma Mullan e Loach sono distanti anni luce. Tanto Mullan crea un divario fra storia/e privata/e e Storia, tanto Loach si immerge nelle epoche raccontate, impregnando i personaggi di quei sogni o di quegli orrori propri del loro mondo. Il regista scozzese invece dimentica la Storia con la "esse" maiuscola, per raccontare le violenze (morali e fisiche) subite da ragazze rinchiuse in un convento delle suore Maddalene nell'Irlanda degli anni '60. Generalmente la denuncia colpisce nel segno tanto più si contestualizza la vicenda narrata, qui l'Irlanda sembra fuori dalla Storia, e fuori dal tempo (sulla scrivania di sorella Bridget si vede una foto di Kennedy, unico particolare che specifica un'epoca).

Ma non si tratta di suggerire quello che Mullan avrebbe potuto fare (basterebbe pensare ad alcuni film di denuncia perfettamente riusciti che seguono logiche opposte a quelle di Magdalene: Sacco e Vanzetti di Montaldo, Terra e libertà di Loach, Il muro di gomma di Risi per citare tre titoli assolutamente distanti tra loro nello stile ma tutti decisi a denunciare la violenza di istituzioni contro l'individuo) ma più semplicemente di parlare di alcuni momenti del film che ci convincono ora più, ora meno.

1) Lo splendido inizio, con la violenza muta che si sprigiona attraverso i volti tesi e impassibili di familiari moralisti e cinici, e le cornamuse che ritagliano uno spazio sonoro che è una perfetta ambigua sintesi tra sdegno per quello che è accaduto e desiderio di mascherare (attraverso la colonna sonora) quello che sta accadendo.
2) Gli attimi di lucida ribellione di Bernadette che ruba la collana di Crispina facendola cadere in uno stato critico di depressione ("siamo qui per soffrire" commenterà in modo didascalico Bernadette).
3) Il momento della proiezione pubblica del film The Bells of St. Mary's con una Bergman pre-rosselliniana; momento che riesce a ricostruire il fascino particolare del cineclub inserito in un contesto in cui si mescola sincera passione (l'amore per il cinema di sorella Bridget) e sincera ironia (quella di Mullan).
4) I colpi bassi: come lo spogliarello forzato del sacerdote che veste panni "urticanti" e che induce lo spettatore a facili e inutili risate.
Un film che in definitiva regala momenti molto intensi (la vera nota di merito sta nella recitazione magistralmente tesa di tutte le ragazze rinchiuse nel convento) ma che non riesce a colpire nel segno perché non si configura come discorso aperto e simbolico, grido di un'epoca o di una minoranza, ma che invece si costruisce come una poesia dai toni crudi e forti mescolati a semplicità e semplicismo.

La vera violenza è quella che viene consumata fuori, nella società imbevuta di falsa e apparente moralità cattolica, sembra anche suggerire Mullan (il padre che frusta la figlia riportandola in convento [interpretato dallo stesso Mullan], il ragazzo in macchina che prova pena per una delle protagoniste) ma quel fuori è anche uno spazio di libertà dove forse è possibile un altro mondo. Quell'altro mondo è intravisto nel finale del film, negli occhi di Bernadette. Occhi (quelli di Nora-Jane Noone) che si configurano come simbolo vitale di lotta, di desiderio, di riflessione: possono bastare per un Leone d'Oro?

 


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