Era considerato dai più un romanzo “infilmabile”, L’Atlante delle nuvole di David Mitchell, ma i fratelli Lana e Andy Wachowski, insieme a Tom Tykwer (che ha anche contribuito a scrivere la colonna sonora), hanno raccolto la sfida artistica e produttiva che presupponeva l’adattamento, portando a termine un’operazione cinematografica quantomeno ambiziosa. Cloud Atlas appunto. Autori anche della sceneggiatura, i tre cineasti hanno plasmato un kolossal con “l’anima” che, mai come in questo caso, nonostante la banalità dell’etichetta, può essere una definizione azzeccata per restituire la visione del mondo, e anche del cinema, che sottende Cloud Atlas. Prima di essere un racconto filmico dal tono epico e dai risolti spettacolari, Cloud Atlas vuole soprattutto essere un film che propone una propria specifica riflessione sulla natura dell’umanità, prescindendo dai confini spazio-temporali e dalle differenze di genere ed etnia.
Articolato in sei episodi, che però di fatto confluiscono in un unico nucleo narrativo e tematico, ambientati in sei epoche diverse nell’arco di 500 anni, Cloud Atlas incentra la sua azione non solo sui personaggi, ma sulle loro anime che rinascono e rinnovano, ridefinendoli, i legami con le altre anime/personaggi. Questa rinascita è rappresentata dalla continuità visiva di ogni membro del cast - Tom Hanks, Halle Berry, Jim Broadbent, Hugo Weaving, Jim Sturgess, Ben Whishaw, Susan Sarandon, Hugh Grant, Doona Bae, James D’Arcy, Zhou Xun, Keith David, David Gyasi - che ritorna, all’interno dei sei episodi, in ruoli di volta in volta diversi per nazionalità, sesso, aspetto fisico e caratterizzazione, al punto da risultare spesso quasi irriconoscibile. Ogni anima compie una traiettoria personale, non necessariamente indirizzata verso un’evoluzione positiva, innestandosi in un quadro più ampio e omnicomprensivo che include e abbraccia tutti gli esseri umani. Collante e mattone fondamentale di Cloud Atlas è, quindi, proprio la convinzione che un’azione compiuta dal singolo in un determinato momento possa incidere sulla vita degli altri, con ripercussioni nel tempo dalla portata imprevedibile. Nel film alcuni personaggi possiedono uno speciale tatuaggio a forma di cometa che denota come le loro anime siano in grado di lasciare, più di altre, un segno profondo.
Nel 1849 Adam Ewing (Jim Sturgess) è un avvocato che, giunto nelle Isole del Pacifico per affari, si trova a fare i conti con la schiavitù e con i propri conflitti morali. Nel 1936 il giovane e appassionato musicista Robert Frobisher (Ben Whishaw) si allontana dall’amante Rufus Sixsmith, interpretato da James D’Arcy, per cercare fortuna. Diventato apprendista, in Scozia, presso il celebre compositore Vyvyan Ayrs, riesce a scrivere il suo capolavoro - The Cloud Atlas Sextet -, ma entra in conflitto con il proprio mentore. Nel 1973, a San Francisco, la giornalista Luisa Rey, dopo aver conosciuto un Rufus Sixsmith ormai anziano, inizia a indagare su un caso di corruzione relativo a una centrale nucleare che può mettere in pericolo molte vite, innanzitutto la sua. Nel 2012 l’editore inglese Timothy Cavendish (Jim Broadbent) viene rinchiuso, suo malgrado, in un rigido istituto di riposo per anziani, dal quale tenterà di fuggire. Nel 2144 in una Neo Seoul distopica, la clone Sonmi-451 (Doona Bae), geneticamente progettata per essere la cameriera di una “mangeria” (tipico ristorante del futuro), prende consapevolezza della sua identità e intraprende la rivoluzionaria strada verso la libertà, affiancata da uno dei leader dei ribelli Hae-Joo Chang. Infine, in un futuro post-apocalittico, oltre il 2320, l’umanità è ritornata a uno stadio pressoché primitivo. L’incontro tra il pastore pieno di dubbi e di ombre Zachry (Tom Hanks) e Meronym (Halle Barry), emissaria dei Prescienti, una comunità di saggi più avanzata rispetto ai valligieri sopravvissuti, può assicurare una nuova speranza per il domani.
La libertà (anche di sbagliare) e l’identità come costanti oggetti di ricerca di fronte al potere, alla sopraffazione, all’ignoranza e alle convenzioni. L’indissolubilità del sentimento d’amore e il potere salvifico della speranza. Il coraggio di superare le proprie paure e incertezze per compiere la scelta migliore. I Wachowski e Tykwer non esitano a fare di Cloud Atlas un film dove la dimensione spirituale, le grandi domande a cui l’umanità cerca da sempre una (im)possibile risposta e il principio dominante dell’interconnessione tra le anime, va profondamente a connotare - nel bene e nel male - sia l’estetica filmica che la struttura narrativa. Girato in parallelo da due troupe, guidate rispettivamente da Lana-Andy Wachowski e da Tom Tykwer, Cloud Atlas è infatti un’operazione cinematografica interessante ma imperfetta, di cui resta l’importante uso del montaggio compiuto da Alexander Berner, che tiene alto il ritmo nelle tre ore di durata del film e rievoca in maniera costante l’allineamento delle anime e il ricorrere degli eventi attraverso i secoli, giustapponendo episodi o frammenti significativi dei sei capitoli e concretizzando di fatto quella continuità teorizzata a monte. Efficace anche l’aspetto dell’eredità dell’arte, che contribuisce a formare la coscienza individuale e, di conseguenza, collettiva (il diario di viaggio dell’avvocato è letto da Frobisher, le cui lettere arrivano alla giornalista Luisa; la storia di Cavendish diventa un film che verrà introiettato da Sonmi, la cui dichiarazione di libertà è un lascito fondamentale destinato a influenzare le persone ben oltre l’esistenza di Sonmi).
Nonostante le sincere motivazioni dei tre registi-sceneggiatori, la bontà del progetto Cloud Atlas resta però legata più all’intenzione programmatica di partenza che non all’effettiva resa cinematografica nel suo complesso. Il film ha il merito di esibire, senza inganni, la sua ben distinta personalità, prendendosi anche molti rischi a livello produttivo e contenutistico, ma alcune ingenuità di troppo rendono eccessivamente semplicistiche le soluzioni adottate. Inoltre, le disomogeneità di registro - e di risultato - tra i sei filoni narrativi e le ardite scelte di make up, che letteralmente stravolgono e trasformano gli attori, frenano il coinvolgimento emotivo dello spettatore, che rischia di prestare più attenzione al tentativo di riconoscibilità degli interpreti piuttosto che al significato del travestimento stesso. Un’occasione mancata, quindi, Cloud Atlas, che non manca di alcuni spunti interessanti e di uno sguardo sotto certi punti di vista anti-convenzionale della natura umana, ma che probabilmente ha messo troppa carne al fuoco, rendendo difficile la gestione compiuta di tutto il materiale a disposizione.
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