Panahi, sovrano esiliato in patria con la sua corona di oro rosso PDF 
Eva Maria Ricciuti   

La sua assenza dal Festival di Cannes, che si tiene Oltralpe proprio in queste ore, ha la tangibilità di un’epifania. In suo onore una sedia vuota campeggerà al centro dell’orchestra del Théâtre Croisette, sede abituale della programmazione della Quinzaine des Réalisateurs che lo vide trionfare nel 1995 con il lungometraggio Il palloncino bianco e che lo rivedrà quest’anno protagonista con la proiezione di In Film Nist, ovvero Questo non è un film (una sorta di diario personale, della durata di 75 minuti in cui un uomo accetta con dignità il proprio destino, segnato dalla privazione della libertà di esprimersi attraverso il proprio lavoro). Stiamo parlando dell’uomo che, non per scelta ma per vicissitudini che si sono tinte poi delle sfumature della missione, è diventato simbolo della lotta per la libertà d’espressione e che, nonostante sia stato e sia tuttora fortemente osteggiato dal governo patrio, è riuscito a far conoscere in Occidente, attraverso le sue pellicole, la realtà in cui versa l’Iran. Il suo nome è Jafar Panahi, re esiliato in patria del cinema iraniano.

Cinquantenne, formatosi all’Università del cinema e della televisione di Teheran, già aiuto di Kiarostami, Panahi sarà il grande assente della Croisette, costretto in patria dalla condanna a 6 anni di prigione, e 20 di interdizione dal lavoro e obbligo di non lasciare il paese, che gli è stata comminata per la sua attività di regista, più o meno – ironia della sorte o amaro paradosso che dir si voglia – per le stesse motivazioni per cui  la Giuria del Festival di Cannes ha deciso di assegnargli il prestigioso riconoscimento Carrosse d’Or: per le sue qualità innovative, il coraggio e lo spirito indipendente dei suoi lavori. Triste destino quello di Panahi, la cui attività cinematografica è da sempre osteggiata dal regime iraniano malgrado sia costellata di riconoscimenti e premi che gli tributano un posto d’onore nella cinematografia mondiale. Spesso le sue pellicole, facendosi beffe dei divieti e dei censori, grazie ad astuzie ed espedienti (basti pensare che proprio per Oro rosso il regista approfittò del Capodanno, in cui in Iran tutto è fermo per due settimane, per portare una copia del film in Francia), hanno varcato i confini iraniani oltre i quali sono unanimemente riconosciute come capolavori ma, ahinoi, non possono essere proiettate in patria. Il che provoca grande frustrazione per lo stesso autore, che più volte ha dichiarato: “Per un cineasta non poter mostrare il proprio film nel luogo e nella lingua in cui è stato girato è come non averlo fatto”.

Panahi, insomma, vive sulla propria pelle le frustrazioni e le privazioni di cui metaforicamente racconta nei suoi lavori, triste tributo da pagare in Iran per poter lavorare in modo indipendente dal governo. Quello stesso governo che gli impedì, nonostante il periodo di libertà condizionata concessogli, di presenziare come giurato a Cannes lo scorso anno, nonostante le ripetute insistenze del comitato organizzativo. Ed è ancora una volta paradossale che la voce fuori dal coro che denuncia la condizione di sudditanza cui il popolo iraniano è costretto a piegarsi possa trovare voce solo all’estero e che viva una condizione da esiliato ma in patria, un esilio censorio che, impossibilitato a piegarlo all’estero, lo vorrebbe muto in Iran. Come i suoi personaggi, Panahi è prigioniero di una condizione fisica, impossibilito a svolgere liberamente la propria attività, costretto a ricorrere ad espedienti per rincorrere quello che dovrebbe essere un diritto inalienabile: la libertà d’espressione. Come l’Hossein di Oro rosso, Panahi vive quotidianamente l’umiliazione di non riuscire ad affermare la propria personalità, come Hossein vive il paradosso di una civiltà che si vorrebbe affrancata dal feudalesimo totalitario e censorio del vecchio impero persiano ma che invece, seppure in altri termini, ne ricalca le tracce. Una lotta quotidiana che inesorabilmente si richiude su sé stessa e che rischia di diventare cerchio chiuso piuttosto che spirale di esperienza che si avvita per salire progressivamente verso una migliore condizione. Una condizione che lo stesso regista più volte ha descritto e che si trasforma nella sua poetica per immagini, nella sua crociata per le idee.

Oro rosso, uscito nelle sale nel 2003, è esempio perfetto della genesi di un progetto osteggiato, ma che infine riesce a veder la luce e, di più, a riscuotere successo internazionale.  La trama è nota: Hossein, un giovane ex soldato che consegna le pizze a domicilio, deve sposarsi con la sorella del suo miglior amico. Portato all’esasperazione dalle misere condizioni economiche e dall’impossibilità di riscatto della sua condizione sociale, disprezzato da un ricco gioielliere cui si rivolge (due volte, con i suoi panni abituali e fingendosi facoltoso) per l’acquisto di un gioiello per la promessa sposa, prima tenta di rapinare la gioielleria, poi uccide il vecchio proprietario e si suicida. Una triste storia tratta dal quotidiano che Panahi stesso dichiara di aver mutuato da fatti di cronaca e che proprio per questa sua veridicità, oltre che per il richiamo metaforico alla condizione del popolo iraniano tutto e ad alcuni precisi riferimenti alla rivoluzione komenista del 1957 e a pratiche censorie e divieti imposti dalla polizia, fu osteggiata dal governo ben prima che avessero inizio le riprese. Ed è solo grazie alla sua caparbietà che, sebbene il Ministero per l'Orientamento islamico cercasse di ritardare l’inizio delle riprese, Panahi riuscì a dare il primo ciak, minacciando, in caso contrario, di realizzare un filmato amatoriale di denuncia che mostrasse, ben oltre il messaggio metaforico, quale fosse la reale condizione della nazione e di diffonderlo in Occidente. Ma fu solo una piccola vittoria, perché la guerra continuò e una volta terminato il film il Ministero chiese di tagliare alcune scene (e precisamente quella in cui si mostra una festa da ballo vietata dalla polizia, un’altra in cui il protagonista incontra dopo tanto tempo il suo comandante al fronte, e una battuta che riguarda una marca di sigarette le “57”, che prendono il nome dall’anno della rivoluzione komeinista) per permetterne la proiezione in patria. Ancora una volta il fattore psicologico giocò un gran ruolo, perché Panahi, già in allerta su tale possibilità ben prima che il Ministero per l'Orientamento islamico ponesse il suo veto, aveva spedito all’estero una copia della pellicola che già circolava liberamente in Europa, battendo sul tempo i censori, che però poi bloccarono la pellicola in Iran (e tutt’oggi, per legge, non è possibile proiettarla).

Facile immaginare che in tali condizioni, lavorando in semiclandestinità e sotto l’occhio vigile della censura, non sia possibile sviluppare progetti che possano eguagliare nella perfezione formale gli analoghi occidentali. Ma la valenza del cinema di Panahi non sta tanto nella forma (spesso le immagini sono fuori fuoco, l’audio sporco, la forma semplice), ma nella forza del messaggio e in una certa cifra stilistica che tuttavia si riscontra, nonostante le oggettive difficoltà. L’uso del piano sequenza, la costruzione ciclica della trama, l’ambientazione povera e la forza allegorica del messaggio sono i punti forza del cinema di questo artista che oggi, nonostante sia “ostaggio” del regime è re egli stesso, celebrato e atteso nel Tempio della cinematografia d’elite.  

TITOLO ORIGINALE: Talaye Sorkh; REGIA: Jafar Panahi; SCENEGGIATURA: Abbas Kiarostami; FOTOGRAFIA: Hossain Jafarian; MONTAGGIO: Jafar Panahi; MUSICA: Peyman Yazdanian; PRODUZIONE: Iran; ANNO: 2003; DURATA: 97 min.

 


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