Un angelo alla mia tavola PDF 
di Claudio Cinus   

Una bambina con una folta capigliatura rossa cammina da sola lungo una strada campestre. La macchina da presa plana su di lei, fino ad inquadrarne il viso. Lei sembra scrutare gli spettatori, poi si volta e scappa via. È la scrittrice Janet Frame, e la voce del suo personaggio ci comunica che quella che segue è la storia (vera) della sua vita. In questa, che è una delle primissime scene del film Un angelo alla mia tavola di Jane Campion, comincia la sua fuga solitaria. Una corsa che la porterà fino in Europa, prima del ritorno alla natia Nuova Zelanda, dove il film si conclude. In mezzo, un'adolescenza difficile, l'esperienza del manicomio, il successo letterario.

"Se la invitano a socializzare con qualcuno e lei non vuole, non lo faccia" dice un medico a Janet, convinta da anni di manicomio della propria, inesistente, schizofrenia. La donna sorride, liberata da un peso: la socializzazione non è obbligatoria, l'individualità non è una colpa. Da quando era bambina - e aveva rubato i soldi al padre per offrire gomme da masticare ai compagni di classe - il contatto con gli altri era stato il suo grande problema irrisolto. Janet, in ogni fase della sua vita, è perfettamente riconoscibile e visibile per via di alcune caratteristiche fisiche, come i denti e soprattutto i capelli, un cespuglio rosso e riccio che la rende, in qualche modo, unica. Eppure è come se fosse lei a non vedere gli altri, imprigionata in un "altrove" che è il luogo della sua fuga. Questo altrove è una scelta, un obbligo, talvolta una colpa. Una scelta, quando volge i suoi occhi verso le persone con cui vorrebbe stare, i posti che vorrebbe visitare senza mai muoversi, limitandosi a immaginare cosa avrebbe potuto farci. Un obbligo, quando viene chiusa in manicomio, pur sana, e sopravvive agli elettroshock grazie alla scrittura. Una colpa, perché al posto delle due sorelle morte avrebbe potuto esserci lei.

Una presenza fisica molto forte, e una psicologica molto labile, sono i caratteri che contraddistinguono i suoi rapporti interpersonali. Dalle ragazze che non riesce a frequentare al professore del quale si invaghisce e che la convince a farsi internare, dal suo spasimante londinese all'uomo col quale avrà un breve rapporto amoroso in Spagna, tutte queste relazioni sono segnate da un totale abbandono di Janet, che sembra solo osservare la sua vita, rimanendo in balìa di chi la sprona, la anela, la elogia, la ama e la butta, senza che lei sembri davvero in grado di interagire attivamente con loro. Sempre fuggendo, prima con la mente, poi anche col corpo, verso luoghi lontani.

La Frame usa il suo "alibi" per attraversare come un fantasma la vita reale: è presente il suo corpo, mai la sua anima in fuga. Questa corsa si arresta solo nell'atto dello scrivere, la creazione artistica che funge da stretto ponte tra mondi vagheggiati e mondo reale. Ma non è una colpa, né schizofrenia, la necessità di un rifugio artistico come interfaccia col mondo. Una volta acquisita questa certezza, la lunga fuga può terminare. Il viaggio fisico e simbolico di Janet Frame si conclude nella sua terra, in Nuova Zelanda: nel rincontrare il suo mare, i suoi prati, le sue colline, può finalmente fare i conti con il passato e con i ricordi che quei luoghi riportano alla mente, e la trovata consapevolezza dei propri mezzi e del proprio talento permette alla scrittrice di trovare un giusto equilibrio.

Per Jane Campion l'arte non è romanticamente legata alla pazzia, può anzi esserne un antidoto. Il modo migliore per trovare l'indipendenza e, soprattutto, accettarsi come persona.

 


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