Il cerchio PDF 
Monica Pentenero   

Il cerchio. Nel cerchio tutto torna, tutto viene ricondotto all’origine, tutto trova risposta grazie al ricongiungimento di causa ed effetto. Ma il cerchio è anche la figura geometrica che non ha né inizio né fine, che si richiude su sé stessa rappresentando una condizione proiettata potenzialmente all’infinito, senza variazioni. Ed è proprio questo che ha voluto rappresentare Jafar Panahi con il suo Il cerchio, vincitore del Leone d’Oro a Venezia nel 2000. Da allora la situazione in Iran, paese natale del regista e teatro delle sue opere, non è cambiata tanto quanto si potrebbe immaginare, e soprattutto auspicare. Al punto che anche l’uscita di Offside, film realizzato da Panahi nel 2006, ha ricevuto l’aperta condanna del regime che ne ha vietato la diffusione nelle sale iraniane. 

Le ambientazioni, lo sconforto e le risposte non fornite da Panahi rimandano immediatamente al cinema del Neorealismo. Ma qui ad essere rappresentata non è una classe sociale, bensì l’intera popolazione di un paese apertamente additato come violatore dei diritti umani dalle associazioni umanitarie. Ne Il cerchio il regista ha rappresentato la condizione femminile in Iran senza l’uso di scene di violenza o di crudi particolari, poiché questi avrebbero contribuito a rendere più umane le storie narrate. Mentre quella di cui si parla è una condizione che ha evidenti tracce di disumanità, per cui le donne vengono relegate a ruoli scelti dagli uomini e non possono essere considerate sotto alcun altro punto di vista. In un mondo dove nascere femmina è una maledizione, dove “senza un uomo a fianco non ti danno niente”, dove esiste il diritto al ripudio da parte di padri e mariti nei confronti di figlie e mogli considerate inadeguate, e dove regnano le più assurde convenzioni sessiste, Panahi ha messo in piedi una dolorosa staffetta di cittadine iraniane, presentando frammenti di storie che hanno in comune luoghi e destini. Trattandosi di frammenti non si conosce (o si conosce appena) il passato dei personaggi che si avvicendano sotto gli occhi dello spettatore, né si hanno informazioni sull’evolversi delle loro vicissitudini. Ogni donna esce di scena senza lasciare spazio a false speranze, e a riunirle sarà una lapidaria carrellata finale che le mostra rinchiuse nella cella di un carcere.

Sin dai minuti iniziali la tesi di Panahi appare chiara: in Iran alle donne sono riservate sofferenza e prevaricazione. Quella sofferenza e quella prevaricazione che rappresentate nella parte introduttiva, che si presenta contemporaneamente come chiave di lettura dell’intero lungometraggio. In questa sorta di introduzione la voce di una partoriente e quella dell’ostetrica che l’assiste costituiscono l’unico elemento narrante, dal momento che l’episodio si svolge durante i titoli di testa che scorrono su fondo nero. Mentre la prima donna, il cui nome fa da raccordo fra le prime e l’ultima sequenza, mette alla luce la sua prima bambina, le sue grida di dolore anticipano tutte le ingiustizie subite dalle protagoniste delle scene seguenti. Dove il regista, nella loro messa in scena, si affida con rigore a campi vuoti, lunghe attese che ben trasmettono l’incertezza e l’oppressione che segnano la vita delle donne descritte, che, ree di aver disobbedito all’uomo di turno, sono state severamente punite, e la cui vacuità è riflessa anche dai colori opachi, ovattati e scuri, oltreché dal nero che caratterizza il loro abbigliamento monocromatico: come se a loro fosse preclusa la felicità, o perlomeno la varietà e la libertà rappresentate dai colori.

Panahi non possiede la soluzione ai problemi del suo paese, ma utilizza pacatamente (e non con la rabbia che sarebbe lecito aspettarsi) i mezzi a sua disposizione per diffondere la verità, per testimoniare la violenza legalizzata che ogni giorno viene perpetrata in Iran. Malgrado l’ovvia parzialità del suo sguardo, non cade mai nel melodrammatico, o, peggio, nell’ideologico, non mostra nulla più dell’essenziale. E la sua scelta di realizzare un’opera corale si rivela vincente. Il suo è uno stile asciutto e snello, che sottolinea con garbo i momenti salienti senza virtuosismi o toni esagerati. Tanto che con Il cerchio prevale largamente l’impressione di essere di fronte ad una sorta di documentario in cui il messaggio viene trasmesso chiaramente, senza fraintendimenti. Panahi fa ciò che sa fare meglio, dà vita a un’opera in cui nessun dettaglio è fine a sé stesso. E, sebbene il risultato finale possa apparire prevalentemente teso alla trasmissione del messaggio, in realtà il livello qualitativo della sua creazione è tutt’altro che secondario: ne Il cerchio la qualità è al servizio dell’affermazione dei diritti umani.

TITOLO ORIGINALE: Dayereh; REGIA: Jafar Panahi; SCENEGGIATURA: Kambuzia Partovi; FOTOGRAFIA: Bahram Badakhshani; MONTAGGIO: Jafar Panahi; PRODUZIONE: Iran/Italia; ANNO: 2000; DURATA: 90 min.

 


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