Con La pianista Michael Haneke torna in patria dopo la brillante trasferta di Storie (2000) in quel di Parigi e, quasi a voler salutare il suo pubblico, dopo la pausa riflessiva del film precedente, decide di ripercorrere la strada dell'aggressione nei confronti dei suoi spettatori con un'altra opera spietata. Tratto dal romanzo omonimo della scrittrice austriaca Elfriede Jelinek, La pianista affronta una tematica ancora inedita nella poetica del regista quale la pulsione sessuale e le sue conseguenze. Haneke decide, come suo solito, di costruire la narrazione secondo una logica dell'addizione.
L'insegnante di piano Erika Kuhot (Isabelle Huppert) vive con la madre (Annie Girardot), con la quale intrattiene un ambiguo e conflittuale rapporto. La sua primitiva aggressività, unita alla schizofrenia degli atteggiamenti, insinua da subito il sospetto che dietro quella maschera severa e impassibile (ma soprattutto, insospettabile) si nasconda un volto oscuro e problematico, emblema di una personalità prossima al collasso. La mancata accettazione della propria sessualità e la disgregante mancanza di una figura maschile muovono la protagonista in una direzione mortifera. Se il rapporto materno, cui si è appena accennato, era già un primo campanello d'allarme per lo spettatore, la vera rivelazione è costituita dalla scena del sexy shop. Da questo momento in poi la caduta della giovane insegnante sarà precipitosa.
Haneke insiste con le sue ossessioni: la visione diviene elemento di corruzione del reale. Se in Benny's video (1992) la dimensione vouyeuristica era la causa dell'alienazione, così come in Storie la finzione digitale del provino di Juliette Binoche si mescolava con la realtà diegetica in una direzione sicuramente inquietante, ne La pianista si trasforma nel vero e proprio mezzo dell'alterazione dell'individuo. La sequenza del drive-in, in cui l'eccitato gioco di sguardi tra gli spettatori nelle vetture - secondo un processo di fascinazione implicito nella fruizione - e quello di Erika, che in questo modo duplica il suo piacere, assume una valenza fin troppo esplicita che il regista reitera nella cruda scena dei bagni del teatro.
Lo spettacolo a cui partecipava impotente il pubblico di Funny Games (1997) possedeva una morbosità derivante dall'attrazione per la morte, non dissimile da quella più propriamente erotica. Haneke crea un parallelo, forse un po' inflazionato, tra amore e morte usando gli strumenti a lui più cari.
Piani lunghi e insistenti isolano i singoli personaggi in modo che il quadro dell'inquadratura li imprigioni per sempre nei microcosmi deliranti da loro stessi costruiti.
Erika e Walter (Benoît Magimel) si dimenano seguendo schemi tanto grotteschi quanto prevedibili, seguendo una logica psicanalitica. La loro è una danza funebre celebrata in ricordo della razionalità e dell'amore, quello stesso sentimento che sembra non poter avere luogo se non al prezzo di conseguenze catastrofiche. Come direbbe Fassbinder, "L'amore non esiste. Esiste solo la possibilità dell'amore".
Il regista tedesco riesce a gestire questo "delirio a due" in maniera impeccabile, potremmo dire addirittura bergmaniana. La sua scansione del tempo è rigorosa e si ripercuote sul ritmo dell'intero film che presagisce, scena dopo scena, quella che sarà l'implosione finale. Con movimenti di macchina essenziali, un montaggio ridotto all'osso e una splendida fotografia volta ad evidenziare le ombre, Haneke scruta i suoi personaggi, li indaga con lo sguardo dello entomologo, segue i loro esperimenti. Isabelle Huppert stupisce interpretando il suo personaggio di donna/bambina e Benoît Magimel si muove a suo agio in un contesto sicuramente scomodo e di difficile accettazione.
Ad ogni modo, La pianista, malgrado non sia all'altezza delle opere precedenti del regista austriaco (forse per l'argomento sinceramente un po' logoro e inflazionato), è comunque un ulteriore e mirabile ritratto che Haneke aggiunge alla sua galleria, ormai sempre più agghiacciante e spietata.
|