Bruegel secondo Majewski: I colori della Passione PDF 
Elisa Mandelli   

Un movimento di macchina muove da un dettaglio di Salita al Calvario, capolavoro del pittore fiammingo Bruegel il Vecchio, e, in un progressivo allargamento del campo, mostra le pareti e le sale del Kunsthistorisches Museum di Vienna. È l’inquadratura con cui si chiude The Mill and the Cross, titolo originale dell’ultimo lavoro del regista e artista Lech Majewski. Un finale che interviene a posteriori a rendere esplicita la pur evidente operazione compiuta nel resto dell’opera: una sorta di esplorazione cinematografica della ricchissima materia figurativa del quadro di Bruegel, imponente per ampiezza, 124x170 cm, e per complessità, con oltre 150 personaggi che affollano un paesaggio restituito con rigoroso rispetto dei dettagli.

Il dipinto, un olio su tavola datato 1564, ripropone un’attualizzazione al Cinquecento fiammingo della scena biblica della Passione, a significare la corrispondenza profonda tra le persecuzioni subite da Cristo e quelle imposte dai dominatori spagnoli a coloro che si sospettavano vicini ai movimenti religiosi riformatori. Così Gesù viene condotto al Calvario da soldati in giubba rossa al soldo del re di Spagna Filippo II, nell’indifferenza dei personaggi che lo attorniano, quasi invisibile allo spettatore per quanto sia collocato al centro dell’opera. Simbolo di Dio, il mugnaio guarda tutto dall’alto della rupe su cui è collocato il suo mulino, mentre in primo piano, unica a manifestare dolore, Maria è confortata dalle pie donne e San Giovanni. L’articolata composizione pittorica, con i suoi differenti livelli di prospettiva, prende vita nel testo cinematografico in una serie di scene e tableaux vivants che ne isolano i gruppi plastici e le azioni, osservandone il dispiegarsi in una temporalità in cui i gesti del quotidiano arrivano, senza perdere la loro concretezza, a farsi simbolo. Se la complessità del testo pittorico si dispiega dunque nella durata cinematografica, ogni inquadratura del film si rivela a sua volta frutto di un ricercato lavoro compositivo, in una sapiente fusione tra riprese dal vivo (nei paesaggi della Nuova Zelanda, alla ricerca di uno scenario naturale la cui intensità potesse eguagliare quello dipinto dal pittore), performance attoriali su blue screen e fondali dipinti dallo stesso Majewski su modello di quelli bruegeliani. Ne deriva un’immagine dalla straordinaria potenza visiva (accentuata da un altrettanto accurato lavoro sulla colonna sonora), insieme stilizzata e ricchissima, il cui statuto si fa incerto, quasi ibrido, riproponendo con forza la questione dei rapporti tra cinema e pittura, tra osservatore e rappresentazione.

Parallelamente, approfondendo uno spunto presente nel dipinto stesso, a essere messo in scena è il farsi dell’opera, il suo percorso ideativo e realizzativo: se nel quadro di Bruegel si è pensato di riconoscere il pittore stesso (in basso a destra, sotto l’albero della tortura, vestito di bianco), Majewski affida a Rutger Hauer il compito di interpretarlo, cogliendolo nel pieno del momento creativo, nell’atto di mettere in forma la propria materia. Senza perdere il proprio autonomo valore artistico, il cinema si fa strumento per comprendere più a fondo l’opera d’arte, per penetrarne la complessità e renderne esplicite le tensioni profonde. E se i (rari) dialoghi intervengono a esplicitare le ragioni alla base del progressivo farsi dell’opera, è a questo livello che diviene palese l’elemento di mediazione tra la rappresentazione di Majewski e il dipinto del pittore fiammingo: l’opera del cineasta-artista compie un’operazione evidentemente metatestuale (instaurando cioè con l’opera di riferimento una relazione di commento e interpretazione), mediata appunto da un terzo testo, il saggio dello storico e critico d’arte Michael Francis Gibson (di cui, non a caso, il film conserva il titolo). La lettura che Gibson dà del capolavoro bruegeliano è riecheggiata (programmaticamente, dal momento che Majewski si è avvalso della sua collaborazione nella scrittura) nella fascinazione per la potenziale ricchezza narrativa di ciascuna delle singole figure che animano il quadro, nell’attenzione per la rappresentazione del paesaggio (in bilico tra meticoloso realismo e spessore simbolico), nell’enfasi sui risvolti politici delle scelte rappresentative del pittore.

Il saggio di Gibson costituisce dunque l’ossatura interpretativa di un testo che è insieme una suggestiva sperimentazione visiva e un saggio critico per immagini. Ma non solo, poiché The Mill and the Cross si rivela strategicamente posizionato al crocevia di un ben più ricco insieme di suggestioni. Pur mettendo in scena un universo ricco ma - apparentemente - chiuso in se stesso (delimitato dalla cornice del quadro, che insieme si rivela e viene oltrepassata nel finale), il film è attraversato da un fitto gioco di rimandi e corrispondenze, che si aprono da una parte a echi pittorici (con una sottile allusione intertestuale alla Torre di Babele dello stesso Bruegel, che si intravede nello studio di Niclaes Jonghelinck, e nel finale alle pareti del Kunsthistorisches Museum), dall’altra richiamano - più o meno intenzionalmente - una più ampia tradizione cinematografica di rappresentazione della Passione di Cristo in una serie di tableaux vivants: uno dei primi - e più duraturi - soggetti della settima arte, se già nel 1897 i Lumière ne proponevano la loro versione (Vues representant la vie et la passion de Jesus-Christ), e ben altre quattro ne circolavano l’anno successivo.

Più a fondo, è straordinariamente ricco l’insieme dei film che hanno “animato” i capolavori della pittura, consentendo allo spettatore (e in alcuni casi ai personaggi stessi della finzione) di immergervisi. Si pensi, per citare i più illustri, al protagonista di Corvi, episodio di Sogni di Kurosawa (1990), che, durante una visita al museo (che esplicita anche in questo caso il moto di entrata - e poi di uscita - dal quadro) fa letteralmente il suo ingresso in una tela di Van Gogh, e, dopo un dialogo con il pittore, attraversa in una surreale passeggiata gli scenari naturali da lui dipinti. Ma anche, naturalmente, agli straordinari tableaux vivants pasoliniani (La ricotta, 1963, ma anche il Decameron, 1971, in cui ancora una volta Bruegel è uno dei punti di riferimento), o a quelli di Passion di Godard (1982), tasselli di un’esplorazione dei confini, sempre più sottili e permeabili, tra le due arti. Inesausta indagine che nella contemporaneità prende corpo nell’arte di Peter Greenaway, che, dopo aver costruito un vero e proprio giallo a partire dalla Ronda di notte di Rembrandt (Rembrandt's J'accuse, 2008), e aver animato, attraverso proiezioni di immagini e luci, L’ultima cena di Leonardo (2008), ha ricreato digitalmente Le nozze di Cana di Paolo Veronese (2009), ricollocandole nel Cenacolo Palladiano, contesto per cui erano state originariamente concepite, e ridandogli vita in una suggestiva opera multimediale, in cui lo spettatore è messo di fronte al dispiegarsi dell’episodio biblico in un brulicare di suoni, voci, luci e immagini.

L’intima prossimità tra cinema e arte (insieme del passato e contemporanea), così come la fusione tra i più elevati esiti dell’arte pittorica e le più recenti evoluzioni della tecnologia digitale caratterizzano a fondo anche l’opera di Majewski, il quale all’attività di regista ne affianca una artistica di tutto rilievo (nel 2006 il MoMA ha ospitato una sua importante retrospettiva). Non a caso The Mill and the Cross è, oltre che un’opera cinematografica, un’installazione artistica realizzata con spezzoni del film stesso, esposta nel corso della 54° Biennale d’arte a Venezia nella chiesa di San Lio. L’opera assume su di sé una dimensione plurale, in un costante viavai tra pittura e cinema, in cui ciascuna delle due arti è di volta in volta punto d’arrivo o di partenza, in un gioco di scambi e intrecci che sembra sfociare in un tentativo di sovrapposizione - e quasi di superamento - tra le due forme espressive.

 


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