Vendetta, tremenda vendetta! PDF 
di Gianmarco Zanrè   

Esiste un adagio, neppure troppo remoto nei secoli, capace - se applicato all'uomo e alle sue profondità - di sconvolgere maggiormente ad ogni giorno passato alla ricerca di una sua possibile spiegazione: "Quando guardi l'abisso, ricorda che è l'abisso a guardare te". L'arte, la letteratura e, dall'inizio del secolo scorso, il cinema, con alcuni dei loro più straordinari interpreti, pare abbiano cercato, attraverso vie più o meno sotterranee, una risposta, una connotazione da assegnare a quell'abisso che incombe su ogni sventurato che tenti di carpirne i segreti nascosti: dalla Divina Commedia di Dante a I Masnadieri di Schiller, passando attraverso le grandi epopee di Delitto e castigo e Il profumo (rispettivamente Dostoevskij e Suskind), dalle sofferte pennellate di Munch, Van Gogh, Caravaggio fino a giungere alla ricerca del male nel cinema di Fritz Lang - "Esistono solo due categorie di persone: i cattivi e i molto cattivi. Ma noi siamo giunti ad un accordo e chiamiamo buoni i cattivi e cattivi i molto cattivi." - e alla tragica Alba fatale di William Wellman, ogni grande genio pare essere uscito se non sconfitto, almeno rassegnato al confronto con le miserie dell'animo umano, inducendo il pubblico, che in queste rappresentazioni dello stesso abisso si è perduto, a restare in silenzio cercando di sopportare il peso scoperto nel cuore.

Certamente è ancora troppo presto per poter includere nella ristretta cerchia di questi maestri il nuovo volto del cinema coreano, Park Chan-wook. Eppure, concludendo la sua ormai famigerata trilogia sulla vendetta - che già aveva scioccato con i due precedenti capitoli, acclamati dalla critica di tutto il mondo e culminati con il premio speciale della giuria conferito a Old Boy a Cannes 2004 -, il quarantaduenne regista stupisce ancora una volta con un opera forse meno incisiva delle precedenti dal punto di vista universale del termine, più estetizzante e meno esplicita nell'estrinsecare la fisicità della violenza, ma assolutamente agghiacciante nel portare un discorso - quello, appunto, della vendetta personale - in un dramma di gruppo senza precedenti. Non a caso la protagonista di Lady Vendetta, una splendente Geum-ja (Lee Yeong-ae), dalle fattezze capaci d'indurre in tentazione e associarla a una "Madonna" ben più vicina alle tradizioni religiose occidentali, assume connotati divini estraniandosi da un mondo tanto crudele da privarla non soltanto della libertà, ma anche della vita, rappresentata egregiamente da una figlia perduta e - probabilmente - mai riconquistata. Per un umanità che si libera solo in sogno, unica via di fuga che restituisce alla protagonista il coraggio di portare a termine di fronte a se stessa la vendetta così lungamente attesa, in un superamento dei concetti espressi nel già citato Old Boy, ove prigionia, trauma, rapporto tra genitori e figli, percorso individuale diretto ad un inevitabile conclusione, erano estrinsecati dai "suggerimenti" di un antagonista dalle caratteristiche, appunto, divine, che, in quest'ultimo lavoro paiono essere invece confluite nell'eroina, lasciando allo spietato Baek tutte le miserie dell'uomo. La stessa prigionia vissuta da Geum-ja ribalta i canoni dell'attesa del suo predecessore Dae-Su, e diviene, grazie a un rigore sconcertante mosso a servizio dell'estetica e un montaggio ritmato da continui flashback, una sorta di trattato sui rapporti sociali fra reclusi, campionario che rimanda alla denuncia del sistema carcerario quanto a una sorta di "galleria degli orrori", delle bassezze delle sue occupanti, pronte, in questo caso, a riversare tutto l'odio maturato fra le mura della prigione nel grande macchinario che prevede il coronamento del progetto della paziente, spietata, imperturbabile, sorridente Geum-ja. Strega o santa, vittima innocente in carcere per proteggere la propria figlia e spietata vendicatrice al retrogusto di ammoniaca.

La struttura della pellicola, scindibile quasi perfettamente come la doppia natura della protagonista, trova un'ulteriore conferma del suo dualismo nella ricerca cromatica: solare, brillante, accecante la prima parte, persa nell'ipnotica aura della "santità" della donna, quanto cupa, oscura e tinta del cremisi più denso la seconda, figlia dell'esplosione dell'abisso che vede proprio nel sangue soffocare le risposte dell'autore e, di riflesso, della platea. Unico elemento a correlare le due parti, il candido pallore della neve fluttuante - non a caso presente nel richiamo del trucco di Geum-ja - nel piatto omaggiato ai detenuti tornati alla liberta, in ogni dolce confezionato dalle abili mani della nostra santa vendicatrice: quasi come in un macabro gioco, inoltre, il dessert, piatto freddo per eccellenza - come la vendetta, del resto -, diventa simbolo del rituale compiuto come una comunità prima ancora che da singoli individui, guarnito dello stesso rosso della maschera triste della cuoca, artefice dell'atto ma, in quanto deus ex machina, legalmente "innocente". Il perdono chiesto alla figlia - che, spietata, conta affinché il numero di "mi dispiace" torni con la consuetudine del rito - pare non bastare, e la stessa Geum-ja, uccise le sue controparti cinematografiche precedenti - curioso che Mr Vendetta nel ruolo dello sgherro ucciso nella splendida sparatoria girata in carrello laterale, e Old Boy, il malefico Baek, muoiano entrambi per mano e volere della protagonista che chiude la "loro" trilogia -, accarezzata dalla neve della redenzione, appare confusa almeno quanto, schiacciata dal ricatto, aveva dato inizio al circolo vizioso che la vendetta non può chiudere, solo e più semplicemente occultare, come le tracce di un omicidio rituale che tanto ricorda un esecuzione o, appunto, un dolce gustato e sparito come una prova compromettente dal tavolo della mensa degli assassini. Qui, dunque, il passaggio più sconcertante della pellicola di Park Chan-wook: Geum-ja, eroina dell'abisso, spalanca le porte a uno spaccato dalla crudeltà inusitata, mettendo di fronte i genitori che hanno visto i loro figli rapiti e uccisi da Baek allo stesso assassino, in un crescendo di potenza ed incisività dirompenti, per un concorso di colpa che non coinvolge solo i protagonisti dell'atto in sé, o del quadro risolutivo presentato in quest'opera, ma gli stessi spettatori, privati di ogni punto di riferimento e messi di fronte a una scelta che, loro malgrado, sarebbero in grado di compiere loro stessi.

L'assassino uccide dunque per piacere e denaro, i genitori per vendetta - senza mancare di chiedere ed ottenere la restituzione dei riscatti depositati per la liberazione dei figli già morti -, Geum-ja, la strega e la santa, orchestra e sollecita l'esecuzione, il poliziotto che l'ha arrestata da innocente pone la vicenda sotto un silenzio connivente e consiglia gli ignari esecutori come colpire al meglio senza ferirsi nell'esecuzione. Se la prima parte, dunque, è dedicata alla sociologia carceraria, e i due capitoli precedenti della trilogia alla vendetta come strumento individuale e assolutamente privato, ora la dimensione si amplifica, e seppur velata dagli ingressi numerati all'esecuzione, assume i connotati di un discorso ben più ampio e scottante: quello sulla pena di morte come strumento per realizzare e compiere, appunto, la vendetta. Difficile, come nello splendido Mystic River, non essere confusi e storditi dal risultato di una ricerca che non solo porta l'abisso a ricambiare il nostro sguardo, ma pare stringerci la mano per scaraventarci proprio nel "cuore di tenebra" che tanto fece per condurre generazioni di artisti, cercatori e semplici ascoltatori, dritti verso "l'orrore" apocalypsiano. Geum-ja pare voler sfuggire dal buio delle profondità idealizzando una figlia fin troppo reale, mascherandosi come divina, celando la sua natura oltre un sorriso che, per il Dae-Su della precedente fatica del regista, rappresentava il punto di fuga di una prospettiva così rigida da divenire iperreale, e nel precedente Mr Vendetta trovava rifugio nella sordità, e fuga nella vendita di organi: nessuno di loro, in ogni caso, neppure invocando il divino, riuscirà ad evadere dall'umanità di questo sconforto. La colpa inizia e finisce con l'uomo, e se davvero qualcosa esiste, oltre, non è pervenuto nel mondo di quest'abisso insondabile nel quale Park Chan-wook ci ha trascinati inesorabilmente. Le ragioni della vendetta non cambiano l'atto in se stesso: divengono, al contrario, la sua prima causa. Come nell'hybris greca, o nei Fratelli di Ferrara, l'origine di un atto non cambia le sue conseguenze, e se il "ti devo uccidere" pronunciato da Christopher Walken fa rabbrividire, la metodica preparazione dei genitori in attesa - più simile al modus operandi di un serial killer, come quello che sono in procinto di giustiziare, che a uno sfogo vero e proprio - è un monito di altrettanta potenza e fredda, agghiacciante profondità: il sangue di cui Geum-ja si tinge, la sua bellezza, e l'estetismo apparentemente accademico della pellicola stessa, sono dunque forse presenti per imputare allo spettatore le sue colpe, e mostrare quanto a fondo e per quanto sangue la lama dell'abisso, per mano di Park Chan- wook, possa andare a fondo nel nostro cuore. Se Fritz Lang avesse avuto occasione di osservare la trilogia sulla vendetta del cineasta coreano, probabilmente, avrebbe rivisto alcuni dei temi che, con metodologia e approccio pur diametralmente opposti, lui stesso aveva sviscerato già dal suo primo film sonoro, quel M – Il mostro di Dusseldorf universalmente noto come uno dei capolavori assoluti del cinema, quando l'omicida Peter Lorre, processato da una giuria imbastita da criminali di strada, dichiara di voler essere consegnato alle autorità, e si difende rifugiandosi, in un crescendo di commozione e intensità, nella sua normalità rispetto all'inciviltà dichiarata di chi, in quel momento, si arroga il diritto di condannarlo. I tempi sono cambiati, e se la pellicola di Lang resta terribilmente attuale - se non "futurista" -, Park Chan-wook e la sua Geum-ja non hanno più bisogno di processi, e quasi ammettendo - ma solo a se stessi - le colpe maturate, forse a quei tempi taciute, dell'uomo, si abbandonano a un esecuzione e a una vendetta che mostra il fianco a tutti i limiti di una società fondata dall'animale sociale per eccellenza, il più crudele che sia mai esistito.

La speranza, se esiste, è in un futuro che non vediamo: in un certo senso possiamo sentirci liberi di invidiare i protagonisti del primo capitolo della trilogia, consumati dalla vendetta dal primo all'ultimo, senza esclusione alcuna, mentre passiamo attraverso la follia silenziosa di Dae-Su e l'amore per la figlia taciuta e l'abbandono di Geum-ja a quello che, fin dall'inizio, nel ricordo e nei propositi di vendetta, dichiara, crede, assume come il suo mondo. Ma cos'è il mondo? Cosa siamo noi che lo popoliamo? Dove abita la nostra coscienza, o il divino che la controlla? Domande senza risposta e affogate nel sangue di una vendetta che risposte non ha. Forse il divino è nascosto proprio fra le linee dolci ed ipnotiche di una maschera bianca e rossa, di una bellezza che ci strega e ci uccide con la pazienza del tempo e la crudeltà della vita, che accetta la vendetta e la miseria come umanità e il distacco dai figli come condizione naturale, sia essa imposta (l'omicidio) o subita (le dita che contano i tuoi "mi dispiace"). Un'altra domanda a questo punto sorge a tormentare i cuori reduci dall'empia visione di una pellicola così incredibilmente dolorosa: quale differenza correrà mai fra l'imposto e il subito? Possiamo dire che Park Chan-wook ci abbia imposto la sua visione personale della vendetta, o di aver subito tutto il fascino esploso dalla sua protagonista? Quale sarà mai la differenza? Subire, in tutte le sue forme, non è espressione di un imposizione su di noi? Ancora una volta domande si aggiungono ad altre domande, in una spirale degna dei sinuosi movimenti di macchina orchestrati dal cineasta coreano e, in questo Lady Vendetta, tanto delicati da rimandare alla magia di un altro grande nome della storia recente del cinema asiatico: quel Wong Kar-wai che si dedica all'amore, lenendo la tristezza nel ricordo e lasciando che altri - leggasi Park Chan-wook ma, perché no, anche Kim Ki-duk - forse più cinici, forse più coraggiosi, o chissà, semplicemente diversi, si occupino di tutto quello che l'amore non riesce a coprire, o delle ferite che inevitabilmente infligge. Del resto, si sa, l'amore può essere una medicina, ma non è mai stato un buon medico. Quella proposta in questa pellicola non è, in ogni caso, una "cura", quanto una presa di coscienza del male in sé, si chiami esso vendetta, violenza, omicidio o, e questo pare essere il più inesorabilmente agghiacciante, umanità.

 


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