François Ozon è un giovane (1967) regista francese, talentuosa promessa dell’attuale cinematografia d’oltralpe. Dopo l’esperienza di numerosi cortometraggi, realizza nel 1998 il suo primo film, ”Sitcom”, che presenta alla Settimana della Critica del Festival di Cannes. Già dall’esordio, Ozon rivela la sua propensione per il dramma satirico e grottesco, per la rappresentazione lucida, amara e paradossale di una famiglia della media - borghesia francese. Nel 1999 esce un nuovo film, “Les amants criminels”, ennesima variazione sul topos degli amanti diabolici (da “Amanti perduti”, 1945, di Marcel Carné a “Assassini nati”, 1994, di Oliver Stone, tanto per fare un esempio).
François Ozon si dimostra da subito un autore molto prolifico, confezionando una serie di tre film in poco meno di tre anni: il 2000 è l’anno di Sotto la sabbia, opera emblematica su cui ci soffermeremo, il 2001 di Gocce d’acqua su pietre roventi, mélo grottesco sull’amore tratto da una pièce teatrale mai rappresentata di Rainer Werner Fassbinder, e per il 2002 il regista sta preparando “Otto donne”, da lui stesso definito “una commedia gialla alla Agatha Christie”, con le maggiori attrici francesi.
E’ facile comprendere come Ozon ami spaziare in relativa libertà e leggerezza fra generi spettacolari differenti, alla (disperata?) ricerca di un’identità autoriale e, soprattutto, di un significato esistenziale ed artistico; significato che - per Ozon come per tutta la generazione intellettuale e umana che lui rappresenta, senza barriere spaziali e geografiche - è destinato a correre sempre un po’ più avanti, a spostarsi sempre un po’ più lontano, inseguendo i fragili orizzonti filosofici del 900’.
Sotto questo profilo il trentaquattrenne regista dipana un filo rosso che lo collega idealmente ad alcuni quasi coetanei autori della cinematografia mondiale: pensiamo ai nostri Muccino e - con un lieve scarto generazionale - Moretti, ad Alejandro Amenabar e all’esordiente Rodrigo Garcia (Le cose che so di lei). La differenza sta nel fatto che mentre i primi due circoscrivono il sentimento di crisi ad ambiti definiti (la crisi dei trentenni, Muccino; la crisi della cultura di sinistra, Moretti), in Amenabar, Garcia ed Ozon l’incertezza si fa cosmica, universale e il dubbio investe non solo l’oggetto, ma anche il mezzo cinematografico.
Sotto la sabbia ci pare a questo proposito un film paradigmatico, nucleo cardinale di una poetica in via di formazione ancora da cogliere appieno nel nostro Paese.
Il plot di Sotto la sabbia è semplicissimo, tanto che si ha l’impressione - specie nella prima parte della pellicola - che non accada nulla e mentre già scorrono i titoli di coda rimaniamo a domandarci che cosa è realmente accaduto. Marie (Charlotte Rampling) e Jean (Bruno Cremer) Drillon sono un’affiatata coppia di coniugi di mezza età: sposati da venticinque anni, partono come ogni anno per trascorrere le vacanze nella loro residenza al mare. Il viaggio, l’arrivo nel luogo di villeggiatura, la riapertura della casa, i primi momenti di riposo costituiscono un rituale rassicurante e ormai fin troppo consueto, sino ad arrivare alla noia, a quella silenziosa monotonia di gesti e di parole in cui trascolora dopo anni la felicità coniugale; la cinepresa si aggira lentamente fra loro, quasi senza stacchi, indagatrice e muta testimone dei loro atti, isolando le due figure in uno spazio assurdamente teatrale, emblematico. L’effetto straniante, lo stridore di un “nonsense” esistenziale si avverte fin da qui, dalla rappresentazione quasi documentaristica di un’estate tranquilla, dalla inspiegabilmente fastidiosa scoperta da parte di Jean di un covo di formiche nel tronco di un albero, durante una passeggiata nel bosco.
L’imprevisto, il conturbante, l’inaspettato - pare voglia dirci Ozon - hanno in realtà radici assai profonde nella solo apparente impassibilità delle nostre esistenze: sono parte, a volte anche fondamento della nostra vita e a noi non resta che accettarlo o lasciarcene sommergere. Proprio come sceglie di fare Marie quando, in un giorno di sole come tutti gli altri sulla spiaggia, si risveglia e si rende conto con sgomento che Jean è sparito nel nulla, durante una nuotata. Senza senso e senza spiegazione.
Qui ha inizio la seconda parte del “film - documento”, con la descrizione del “dopo”: come ne “La stanza del figlio” di Moretti quel che importa mostrare non è tanto che cosa è avvenuto, quanto la reazione dell’uomo di fronte al dolore, all’ineluttabilità del destino.
Ritroviamo Marie a una cena fra amici, a Parigi, qualche tempo dopo: è allegra e bella, persino seducente. La sua vita sembra aver ripreso il proprio corso, fra le lezioni universitarie come insegnante di letteratura inglese e gli altalenanti incontri con Vincent (Jacques Nolot), un insistente corteggiatore. Ma non è così, non sarà mai più come prima: Marie ha lo sguardo sgranato e folle di chi non ha elaborato il lutto, di chi rifiuta una realtà insopportabile per rifugiarsi in una lucida fantasia. Jean è con lei, solo per lei vivo; si aggira per casa, le parla, le dà la buonanotte. Marie gli prepara la colazione e ci fa persino l’amore. Non si arrende neppure quando la vecchia madre le rivela che il figlio faceva uso di psicofarmaci, quando il presunto corpo sfigurato di Jean viene restituito dal mare.
Siamo all’incomunicabilità del dolore, a un’alienazione cui si accompagna infine un pervicace sentimento dell’orrore. Ma un orrore non dispiegato, metafisico, trattenuto negli occhi di Marie e “sotto la sabbia” del nostro quotidiano.
La scena conclusiva del film, quella corsa senza meta di Marie sulla spiaggia, sarebbe piaciuta nella struttura e negli impliciti rimandi a François Truffaut, di cui Ozon pare riprendere la vena intimistica, la naturalezza narrativa e alcuni temi quali la precarietà del vivere, l’inevitabilità della morte, l’ossessionante tensione verso il passato; pur dimostrandosi in fondo maggiormente orientato verso il “cinéma - verité” e certi “drammi da camera” alla Dreyer, alla Bergman piuttosto che verso la “nouvelle vague”.
Il modulo realista usato da Ozon nel raccontare, pur con i suoi reiterati sconfinamenti nella crudezza più assurda e grottesca, in alcuni momenti non impedisce al film di girare abulicamente nel vuoto della più totale
irresolutezza: come se l’eternità del dubbio e la conseguente sospensione del giudizio da parte del narratore cinematografico si rivelassero, assieme all’alienazione di Marie, le uniche reazioni possibili all’indecifrabilità del mondo.
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