TFF 28/Diario semiserio di una proiezione mattutina: Hereafter (tra altre notazioni inutili) PDF 
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Odio svegliarmi presto. Lo odio, ma mi capita troppo spesso. È la sfortuna di chi non è nato in una famiglia ricca e per vivere deve lavorare. Ci ho sperato tanto, ma non è andata bene. Non sempre i sogni sono desideri. Anche perché le principesse che ho conosciuto erano molto simpatiche, ma mi sarei dovuto svegliare lo stesso. Niente scarpetta e niente zucca, rimane il dover mettere la sveglia per cinque mattine alla settimana. Figuriamoci se la sveglia suona anche la sesta mattina. Oddìo. La guardo, la metto a fuoco, mi chiedo perché. Ah, sì, c’è la proiezione stampa di Hereafter. Per Clint il sangue diventa meno acido. Rimane l’intontimento. Con movimenti cadenzati alla Peckinpah raggiungo la sala (dopo molto: non ho dormito all’esterno). Spero fortemente che Clint faccia la grazia. Ne ho bisogno. Non che ne dubiti, ma il jet lag distorce anche speranze e convinzioni. E poi ho bisogno di riconciliarmi con il festival.

Ho visto film interessanti, ma l’ultimo mi ha profondamente indignato. Tournée di Amalric mi ha divertito nella sua naïveté per la sensibilità con cui affronta il peso di un passato di cui si è rimasti irrimediabilmente prigionieri; 127 hours di Boyle è un pugno nello stomaco talmente vigoroso che riesce ad essere ritmato e visionario per rimanendo bloccato in un anfratto scenografico (e che scenografia!); Jack Goes Boating, esordio alla regia per Philip Seymour Hoffman, è delicato e gradevole nella sua ricerca sulle goffe precarietà sentimentali; Neds di Mullan, anche se diseguale e squilibrato nella struttura, è volutamente sporco, potente ed energico nella sua accusa ad una società indifferente verso i suoi figli più indifesi; Mr. Nice di Bernard Rose è una biografia abbastanza convenzionale, ma ha un personaggio (interpretato da Rhys Ifans, allampanato e surreale) di un romanticismo seventies che buca lo schermo; Super di James Gunn, la vera sorpresa, è la dimostrazione di come un film proposto come demenziale possa essere molto più sottile, allegorico e intelligente di molte altre pellicole che si pongono già in fase progettuale come lucide riflessioni sulla crisi individuale. È un gran bel film anche Winter’s Bone, che ha vinto il concorso: un viaggio che gira in circolo, avvolto su se stesso, senza progressione fisica, alla ricerca di una verità che è dentro ai legami familiari, alle radici individuali, anche se scomode, interno all’istinto di rigenerazione di ognuno. Livido, malato, come la progenie delle Ozark Mountains in cui è ambientato, curato nell’apparentemente trascurata messa in scena, con una grande e giovane attrice protagonista: Jennifer Lawrence. Forse ne sentiremo parlare, forse no. Dipenderà dai misteri insondabili della distribuzione italiana.

E allora? Di che ti lamenti? Sì, effettivamente tutto rientra nella logica di un festival: un film ti colpisce, un altro ti lascia indifferente. Il problema è che la sera prima della sveglia mattutina ho visto Wasted on the Young. Australiano, novantasette minuti di durata, un film che non vuole situarsi nel mezzo, come dice il regista Ben C. Lucas, trentatré anni, ma che desidera essere apprezzato come un capolavoro o screditato perché odiato integralmente. Bravo. Private school, ricchi giovani carini e annoiati. Al punto da festeggiare. Al punto da trasformare ogni festa in un martellamento ossessionante di musica techno. Al punto da strafarsi in ogni occasione. Al punto di saggiare sempre il concetto di limite possibile. Bullismo, assenza degli adulti, violenza e prevaricazione. Bene. Pretenzioso, pieno di cliché e non solo cinematografici, che sarebbe il male minore. Dialoghi imbarazzanti, uno su tutti, l’ultimo, che indirettamente parafrasa Petrolini, il quale, irritato, pare abbia dato mandato ai suoi legali di querelare: “io non ti odio, o meglio: ti odio, ma odio di più chi ti ha permesso di essere così”. La colpa è della società, dei genitori assenti, della scuola competitiva. Aridàje. Fintamente onirico, sentenziosamente moralistico, affettatamente programmatico. Non basta. Assurdamente inverosimile. E non si tratta di fantascienza, ma di un apologo sulla società contemporanea. Sono contento di essere rimasto immobilizzato agli anni Settanta (eccetto per i capelli). Esulto. Ma attenzione, perché la ciliegina sulla torta c’è, ed è bella grossa come il naso di un clown Augusto (ha anche lo stesso quoziente farsesco, tra l’altro): la fine del cattivo, detto anche volgarmente ‘O malament’ (non certo nei levigati ambienti ritratti dal film, che griderebbero facendo un passo indietro: ORRORE! Arrotando la erre per tirarsela un po’), è sancita dal voto della comunità scolastica giunto via sms. Viva la modernità! Rido. Fine, il pubblico della sala applaude. “Finalmente un film con le palle!”, dice un giovane spettatore dietro di me. ‘Aspita. Ecco, lo sapevo, è il classico capolavoro che non ho colto. Sono dieci giorni che ci penso. E mi rammarico. Di non aver partecipato al voto via sms puntando alla morte di entrambi i contendenti (anche il buono ha un che di malsano, viscido, lascivo e problematico). Sarà perché non ho il cellulare (menomale, altrimenti sarei entrato nel loop della gioventù australiana di buona famiglia ben oltre il tempo massimo consentito dal mio orologio biologico – e sarebbe stato patetico).

Fatto sta che l’ultimo film è stato questo. Mi tocca svegliarmi presto. Per Clint. Per placarmi nei confronti del cinema (il festival non c’entra più: l’entusiasmo del pubblico ha fatto in modo che il problema sia diventato di più vasta portata). Shhh, inizia. Scena di vacanziera quiete mattutina. Un letto, una coppia indolente. Un mercato in un paese tropicale. Sole, caldo e serenità. La quiete estrema che precede la tempesta. E che tempesta. Dieci minuti e arriva l’apocalisse. Arriva tramite il solito meccanismo eastwoodiano che già fu di Hitchcock: succede qualcosa che l’individuo non può prevedere e a cui non può assolutamente far fronte per limitazione personale. L’individuo ancora non sa, lo spettatore sì. Hitchcock la chiamava suspense. Sgrano gli occhi. Sogno che li sgrani anche Ben C. Lucas, trentatré anni. Se non è troppo impegnato a leggere gli sms del Last minute poll. Lezione di messa in scena, di articolazione dell’atmosfera, di mutamento repentino degli equilibri, di azione (metaforicamente e letteralmente) in apnea, di gestione delle false piste per produrre la successiva insperata sorpresa. Uff! (affanno. Però non posso farla ancora lunga con la tiritera dell’essermi svegliato presto: ora mi sono svegliato davvero). Dieci minuti, non di più. Dieci minuti di cinema espanso in tutte le sue possibili valenze e connessioni solo con l’intenzione di catalizzare il pubblico verso il tema fondamentale del film, quello della soglia. Che porta con sé quello del bisogno di contatto. Poco importa che il prosieguo di Hereafter non abbia la stessa intensità, che la sceneggiatura del bravo Peter Morgan diventi preponderante rispetto al lavoro visivo, che la prospettiva didascalica si preoccupi molto della comprensione delle dinamiche del racconto, che talvolta si senta l’acre odore dello Spielberg di Always sullo sfondo, visto che il buon Steven figura come produttore esecutivo. A Clint ogni tanto capita: troppo intensi alcuni incipit per tenere il ritmo infernale impresso. Non sempre si riesce a realizzare Gli spietati o Mistic River. A volte si producono anche Mezzanotte nel giardino del bene e del male e Potere assoluto, per citarne un paio che avevano sequenze iniziali fantastiche e un seguito soltanto normale. Lo penso dal ’71: Clint è uno dei migliori registi viventi, anche se ha quarantasette anni in più dei “giovani” (da leggere marcando la g come se fosse doppia). Sono sufficienti quei dieci minuti iniziali per giustificare la levataccia e dimenticare la delusione della sera precedente. Il cinema è salvo. Il festival pure. Vade retro Ben C. Lucas. Menomale che Eastwood c’è. Sì, lo so. Non fa così. Ma io preferisco.

 


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