“Proust è il mio scrittore preferito. Ma anche Ammaniti”. Lo dice un personaggio, uno dei tanti autorucoli che frequentano una delle tante feste che si fanno per Roma. È una frase che ci fa sorridere, certo. Ma è anche una frase che rappresenta bene il senso della nuova opera del regista de Le conseguenze dell’amore. Anzi, è la nostra chiave per entrare in tutte le porte che il film ci apre, per guardare da tutti i punti di vista un’opera così complessa, composita, ambiziosa. Proust/Ammaniti è uno dei tanti contrasti su cui vive il film, che essenzialmente si propone di raccontare come la bellezza di una città come Roma faccia a pugni con le persone mediocri che abitano molte delle sue stanze, delle sue terrazze, dei suoi palazzi.
La grande bellezza vive di contrasti: canti sacri e musiche da discoteca, suore e cubiste, giorno e notte, sacro e profano, riso e pianto, pieno e vuoto. L’autore per cui il brutto è bello (nel senso di più interessante), qui ci mostra il brutto e il bello insieme. Ma il contrasto che regna davvero sovrano è quello tra ambizione e fallimento, tra persone che si credono artisti, creativi, influenti, e invece sono solo tristi, vuoti, squallidi. Tra di loro si muove Jep Gambardella (Toni Servillo), alter ego del regista e novello Caronte che ci guida in una discesa agli inferi di cui è conscio, ma dove, alla fine, sembra stare bene. Anche lui, in fondo, è un fallito (come scrittore ha scritto un solo romanzo che non ha mai avuto un seguito), anche se, come giornalista, è un vincente, un uomo presente in tutte le feste, in tutti i salotti, in tutte le terrazze. Intorno a lui si muovono varie persone, come Romano (un inedito e sorprendente Carlo Verdone), autore e attore teatrale fallito. Tutti, nel film di Sorrentino, si sentono Proust. Ma non sono nemmeno come Ammaniti. “Proust è il mio scrittore preferito. Ma anche Ammaniti”. Non a caso sono due scrittori. E la matrice letteraria del lavoro di Sorrentino è evidente, più che negli altri suoi lavori. Anzi, è addirittura ostentata. Si parla molto di scrittori ne La grande bellezza. Proust, Flaubert, D’Annunzio. E Celine, citato addirittura in sovraimpressione su schermo nero all’inizio del film. Perché per Sorrentino, evidentemente, La grande bellezza è il suo personale viaggio al termine della notte.
A proposito di letterarietà, La grande bellezza, in qualche modo, si avvicina anche al romanzo d’esordio di Sorrentino, Hanno tutti ragione. E proprio con quell’opera condivide pregi è difetti: stupisce subito per la genialità e la brillantezza di certe affermazioni, diverte, affascina. Ma dopo un po’ tende ad avvitarsi su se stesso, a non trovare un senso, un fine e una fine, un messaggio compiuto e definito. Come quei trenini delle feste a cui va Jep, “belli perché non vanno da nessuna parte”. Molte battute sembrano aforismi alla Oscar Wilde, belli ma slegati dal resto, illuminanti ma forzati. “È un romanzo sul niente. Quello che voleva scrivere Flaubert”, sentiamo dire al protagonista a un certo punto del film. È il romanzo che vorrebbe scrivere lui. E La grande bellezza finisce per essere proprio questo, un grande, bellissimo, romanzo sul niente. Un film di volti, di spazi, di inquadrature, tutti indelebili e bellissimi. Un film seriamente inquietante, profondamente vuoto, perché parla di un vuoto profondo. Un vuoto che, cercato dal regista per raccontarlo al meglio, finisce per possederlo.
La grande bellezza è La dolce vita di Sorrentino, che, come Fellini, arriva da fuori Roma, e ci vive da poco, e come non romano può raccontarla dall’esterno, come un alieno sbarcato in un mondo non suo. Ma la vita oggi non è più dolce, è amarognola. La dolce vita è vuota, come è desolatamente vuota e triste Via Veneto, dove c’è solo qualche turista e qualche sordido night club. Paolo Sorrentino è un po’ come il suo Jep Gambardella: consapevole del vuoto, del niente che lo circonda, eppure incapace di fuggirne, di staccarsene, come se ne fosse affascinato, soggiogato, dipendente. Forse sarà un caso, ma qualcuno, vedendo il trailer e leggendo la trama del film, mi ha chiesto se fosse tratto dal libro Che la festa abbia inizio. Sì, proprio il libro di Ammaniti, in cui uno scrittore si muove in un mondo di feste e presenzialismo, consapevole del suo vuoto, ma in fondo perfettamente integrato. Ecco, La grande bellezza è la personale ricerca del tempo perduto di Sorrentino, ma è anche Che la festa abbia inizio. La grande bellezza è Proust. Ma anche Ammaniti...
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