Il Cinema Komunisto della Jugoslavia di Tito: incontro con Mila Turajlic PDF 
Piervittorio Vitori   

Se eri fortunato ti poteva capitare di avere un amico con l’antenna esatta che captava la Svizzera o Capodistria. Tele Capodistria era un vulcano di emozioni. Film partigiani dove i tedeschi erano cattivi e i partigiani buonissimi e intelligentissimi. Un paradiso socialista.
Offlaga Disco Pax, Cinnamon

Sì, esatto, sorride divertita Mila Turajlic quando le cito il passaggio della canzone. Le logiche e le dinamiche che presiedettero all’edificazione di quel “paradiso” sono state per quasi cinque anni oggetto dell’indagine condotta dalla giovane regista serba. Il risultato è Cinema Komunisto, documentario che ripercorre appunto la storia dell’industria cinematografica jugoslava e, in particolare, di come Tito vide in essa lo strumento ideale per costruire un’immagine idealizzata e condivisa della Patria, pensata ad uso e consumo della popolazione. Un’immagine che però, dopo lo strappo con l’Urss di Stalin, fu capace di sedurre anche oltre cortina: l’apertura ad Occidente e le favorevoli condizioni produttive fecero della Filmski Grad di Belgrado la “Hollywood dell’Est” (ed ecco allora, a fianco delle produzioni locali, i set di Le lunghe navi, La croce di ferro, Quo vadis ...). Questo mentre, parallelamente, la personalità del maresciallo esercitava il suo fascino su star del calibro di Orson Welles, Sophia Loren, Yul Brynner e Richard Burton. La storia del documentario inizia quando Mila, studentessa di cinema, mette piede nei magazzini degli studi Avala di Belgrado, che della Filmski Grad (Città del Cinema) furono il cuore. Pagine e pagine di storia della settima arte le si svelano davanti agli occhi (come accade allo spettatore, nelle scene poi girate lì) sotto forma di costumi, modellini, oggetti di scena. Nasce l’idea di un documentario sulla storia degli studios stessi, ma ben presto la ragazza capisce che vale la pena di alzare il tiro: di chiedersi non solo cosa avessero dovuto rappresentare all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, all’epoca della loro fondazione, e cosa possano rappresentare ora, ma anche di interrogarsi su quali fossero le storie che uscivano da lì. O meglio, su quale fosse la Storia che usciva da lì.

Le risposte, nella versione di Mila, trovano un’audience attenta negli spettatori del Kinodvor di Lubiana. Nella capitale slovena Cinema Komunisto è in programma all’interno dell’annuale Festival del Cinema Documentario, dopo la prèmiere mondiale di Amsterdam, quella domestica di Belgrado e le rassegne di Trieste, Nicosia e Sofia. Ho sempre pensato, mi dice la regista nella nostra chiacchierata, che avrei fatto il film per due tipi di pubblico: gente dell’ex Jugoslavia e gente che non ne sa niente e a cui magari l'argomento nemmeno interessa. Quindi, durante la lavorazione, il mio obiettivo era quello di realizzare un’opera che fosse in grado di dare determinate informazioni sul Paese nel caso tu non ne sapessi nulla (ho persino incontrato persone che mi hanno detto ‘Sai, fino a quando non ho visto il tuo film ho pensato che la Jugoslavia fosse parte della Russia ...’) e, dall’altro lato, che agli spettatori dell’ex Jugoslavia, che conoscevano la storia, fornisse dettagli inediti. Per l’editing ci è voluto un anno, durante il quale la mia montatrice ed io abbiamo più volte inserito, tolto e rimesso materiale, fino a trovare quel giusto equilibrio che ci evitasse sia di dire troppo che di non dire abbastanza.

E Mila, con in bacheca il premio ricevuto al Trieste Film Festival e in tasca il biglietto per il Tribeca di New York, può già essere soddisfatta del risultato dei suoi sforzi. Anche alla luce della risposta degli spettatori: è sorprendente, mi sarei aspettata reazioni molto più divise, soprattutto a Belgrado. Mi aspettavo molte critiche dalle persone che non amavano Tito, e invece ne ho ricevute poche. La gente era molto entusiasta di come il film riproponeva la Jugoslavia e del fatto che lasciasse la possibilità ad ognuno di giungere alle proprie conclusioni, di decidere se Tito e ciò che fece furono fattori positivi o negativi. Va ora detto che l’autrice, classe 1979, aveva solo un anno quando Tito morì, e non può dunque avere ricordi di prima mano di quella Jugoslavia. Si può allora comprendere la scelta di mantenere un certo distacco (o almeno di provare a farlo) rispetto alla materia narrata, evitando di dare corpo ad un’opera “schierata” in un senso o nell’altro. Marca evidente di questa attitudine è l’assenza, all’interno del documentario, di una voice over che funga da narratore esterno: questo è un punto che ho avuto chiaro fin dal primo giorno, da quando ho iniziato a pensare al film. In ogni momento, sia in fase di sceneggiatura che durante le riprese, lavoravo nell’ottica di lasciare ai miei personaggi la possibilità di raccontare la storia, senza che ci fosse una voce che ti spiegasse costantemente cosa devi pensare e dove devi guardare.

I personaggi, dunque. Tali, a pieno titolo, si possono considerare le stesse pellicole girate sotto l’egida titina, quei cosiddetti spaghetti eastern che trovarono la loro ragion d’essere nella costante riproposizione dell’eroismo jugoslavo opposto alla ferocia dell’occupazione nazista. Decine e decine di titoli che la regista ha inseguito e reperito pazientemente, scandagliando archivi, volando oltreoceano per effettuare scambi con collezionisti, dribblando problemi relativi a diritti d’autore. Il passo successivo è stato quello di creare un database di scene e motivi ricorrenti, isolando dunque determinate clip dai singoli film e taggandole. L’obiettivo di Mila era quello di conciliare nel suo lavoro due aspetti: l’idea di un ritorno alla mia infanzia, quell’atmosfera che mi viene in mente ricordando quando da bambina camminavo per la strada … e al contempo la rappresentazione di ciò in cui la gente credeva e di quelli che erano i suoi valori: questi sono i tipi di scena di cui andavo alla ricerca. Mi interessavano le scene in cui emergeva lo spirito dei partigiani, e l’astuzia di questi film consiste nel fatto che non erano mai i partigiani stessi a dirsi l’un l’altro quanto erano coraggiosi: la sottolineatura della loro forza, della loro motivazione, era sempre lasciata ai Tedeschi. Perciò cercavo questo tipo di scene, ma soprattutto quelle da cui si potesse capire come i film sui partigiani fossero stati usati per creare il mito originario della Jugoslavia, un discorso ideale del tipo ‘Ecco come è nata la nostra patria: noi siamo i partigiani e questo è quello in cui crediamo’.

Accanto alle pellicole ci sono poi gli altri personaggi, quelli in carne ed ossa: registi, produttori, tecnici ed attori che concorsero alla realizzazione di quei titoli con i quali nel film di Turajlic – e grazie al montaggio di Aleksandra Milovanovic – instaurano una sorta di dialogo. Ecco ad esempio Bata Zivojinovic, protagonista, nei panni dell’eroico partigiano, di decine di pellicole: è senza dubbio e di gran lunga il più importante attore nella storia del cinema jugoslavo. Ma poi, accanto a quella di attore, Bata ha avuto un’altra carriera come politico, avendo trascorso tutti gli anni Novanta in Parlamento, nelle file del partito di Milosevic. Era a Pale durante l’assedio di Sarajevo, si candidò alla presidenza l’anno in cui Milosevic era alla sbarra all’Aja … E la cosa che mi ha stupito – l’ho notato alla prima belgradese, alla quale lui era presente – è come tuttora lui sia una star in Jugoslavia: è un attore talmente grande che la gente è riuscita a scindere questa sua immagine da quella del politico e a perdonargli quello che aveva fatto nella seconda veste. È stato incredibile realizzare quanto alle gente non importasse nulla di questo aspetto.

Quello della rimozione e della rielaborazione artificiosa della memoria è evidentemente un argomento sensibile per Mila, figlia di un Paese che ha cambiato 4 nomi in 15 anni. Se pure non ha ricordi di Tito, la regista rammenta il momento in cui, a fine anni Ottanta, in Serbia i ritratti di Milosevic e di S. Sava sostituirono rapidamente quelli del maresciallo, dando inizio ad una “nuova narrativa”: questa si fondava sull’idea che la Jugoslavia fosse stata una prigione per le nazioni che la componevano, che Tito fosse stato un dittatore, che eravamo fortunati ad essercene liberati e che bisognava risalire a molto tempo prima per ritrovare la vera, eroica nazione serba, identificata simbolicamente nella battaglia di Kosovo Polje (1). Inoltre ci fu l’introduzione nel discorso pubblico dei Cetnici (2), dei quali, quando ero più piccola, non si poteva assolutamente parlare. E l’ironia della cosa è che l’iconografia dei Cetnici riemersi al tempo di Milosevic si rifaceva a quella che Veljko Bulajic aveva creato per La battaglia della Neretva: quella che nel film lui aveva proposto come la loro identità visiva fu letteralmente presa come fonte d’ispirazione negli anni Novanta.

Se La battaglia della Neretva (1969) fu forse il punto più alto nella traiettoria della cinematografia titina – grazie ad un cast di tutto rispetto (Yul Brynner, Orson Welles, Sylva Koscina, Franco Nero, Curd Jurgens e Bata Zivojinovic) e alla nomination all’Oscar come migliore film straniero –, a Cinema Komunisto il film di Bulajic offre alcuni dei momenti più surreali. Si passa dalla rievocazione del permesso dato da Tito di dinamitare il vero ponte, per girare con il massimo della credibilità e dell’effetto la scena madre, al doppio incontro fatto da Turajlic al giorno d’oggi, quando nella storica location incrocia due raduni: uno di veterani della battaglia, l’altro di veterani delle riprese del film. All’interno del mosaico di immagini e voci che compongono il documentario, il centro emozionale è costituito dalla figura di Leka Konstantinovic, il proiezionista personale di Tito (il quale, a parte l’utilizzo politico del mezzo, era comunque un sincero ed avido cinefilo). La dimensione più quotidiana dell’uomo che plasmò questo sistema, dunque, viene quasi spiata attraverso il buco della serratura attraverso le confidenze di chi per tre decenni proiettò quasi ogni sera un film al maresciallo e alla moglie Jovanka. Confidenze che, spiega Mila, furono particolarmente difficili da ottenere: con gli altri, dopo gli iniziali rifiuti, la strategia fu quella di continuare a tornare alla carica, due, quattro, sei mesi dopo, un anno dopo ... Li aggiornavo sui miei progressi: non insistevo a chiedere che parlassero, semplicemente facevo vedere loro cos'avevo trovato nei vari archivi. E a poco a poco credo si siano resi conto che ero veramente appassionata a questo progetto, e che per me era così importante che ci avrei speso anche due-tre anni, tutto il tempo necessario. E quando uno di loro accettava lo dicevo agli altri, e quindi, siccome molti si conoscono tra loro, riuscivo a convincerli. Con Leka fu diverso. Seppur molto cortesemente mi disse di no, ma intanto avevo notato sulle pareti di casa sua un sacco di foto di questa ragazzina ...

Scoperto che l’uomo si rammaricava del fatto che la nipote non avesse mai avuto la possibilità di vederlo al lavoro, la regista si offrì di provare a recuperare la vecchia attrezzatura del proiezionista. Ero lì, con lui e sua nipote, e lui si mise al proiettore per mezz’ora, lamentandosi per come era stato mal conservato, rimettendolo in sesto … E lì capii che sarebbe successo, che avrebbe iniziato a parlare. Tornò indietro con la memoria, e così pian piano realizzammo l’intervista. E fu in quell’occasione – curioso, visto che si trattava della prima intervista che gli facevo – che mi raccontò l’aneddoto che ho messo alla fine, quello dell’ultima proiezione per Tito. Una proiezione che in quella sera di primavera del 1980 Leka dovette interrompere, perché le condizioni di salute del maresciallo si dimostrarono tali da richiederne l’immediato ricovero. "Lo portarono a Lubiana ed io non lo vidi mai più", conclude mestamente sullo schermo l’anziano proiezionista.

La dedizione di Leka contrasta nettamente con l’atteggiamento degli altri personaggi, figure – dice Mila – molto ambivalenti: alcuni di loro erano in buona fede, mentre altri erano semplicemente degli opportunisti che compresero la natura del sistema e lo usarono. Ma c’è della ricchezza nella storia di ognuno di loro. Ad esempio in Gile (Djuric, l’ex direttore dell’Avala, NdR) vedi all’inizio l’entusiasmo sincero, poi lentamente la trasformazione in un "apparatchik", in un uomo del sistema. E per me è stato molto interessante vedere come tutti loro abbiano avuto reazioni molto complesse di fronte a quello che accadde in Jugoslavia. Penso che Veljko Bulajic sia stato, in quanto regista, l’unico ad avere davvero una visione da offrire. Agli altri mancava il necessario distacco, lavoravano ai film ma non erano autori, mentre lui è quello che, per quanto potesse essere stato opportunista, comunque puntava all’arte, e per questo è quello che ci offre il punto di vista più filosofico.

Con l’attenzione dello script focalizzata dunque sugli strumenti che crearono il mito della Jugoslavia (i film) e su coloro i quali diedero forma a questi strumenti (i filmmakers), nell’analizzare la filiera di questa produzione di senso si sente un po’ la mancanza del terzo elemento: il pubblico. Ma d’altra parte – dico a Mila – immagino che tu non potessi andare per le strade … Ma l’ho fatto, mi interrompe lei, l’abbiamo filmato! Trovammo un sacco di gente alla tomba di Tito, il giorno del suo compleanno, e passammo una giornata intera a parlare con loro del cinema jugoslavo, dei film che amavano, delle loro citazioni preferite … E poi scoprii che non funzionava, per niente. Cercammo di inserirlo in montaggio, ma non andava d’accordo con la storia del film. Ci tenevo a che il pubblico straniero capisse che questi film erano incredibilmente famosi in Jugoslavia, che tutti li vedevano e li conoscevano … Per me era un punto importante, ma non funzionò, si rivelò non essere parte di questa storia.

Per la chiusura mi permetto di tornare alla politica: per quella che è l'attuale situazione politica in Serbia, è ipotizzabile nel prossimo futuro l'instaurazione di una nuova narrativa? Mila è a dir poco disillusa: non interessa a nessuno. I politici sono controllati dai tycoons, gli ultimi 5 anni di storia serba sono stati segnati dalle privatizzazioni, hanno comprato tutto lo Stato. E sono molto abili: finanziano tutti i partiti, così non hanno problemi, controllano la situazione a prescindere da elezioni e dinamiche politiche. Ho addirittura sentito ragazzi del mio giro, gente che partecipò alle proteste, dire che è peggio adesso che ai tempi di Milosevic. E anche se è chiaramente un'esagerazione – perché allora c'erano momenti in cui mancava anche il cibo, mentre oggi hai outlets, eccetera – almeno negli anni Novanta c'era un obbiettivo molto chiaro: dobbiamo sbarazzarci di lui e staremo meglio. Almeno, era così per quella parte di Serbia che si opponeva a Milosevic. Oggi invece non c'è un obiettivo chiaro, non so di chi o di cosa dobbiamo sbarazzarci per stare meglio. Quindi in questo senso la situazione è tragica: 10 anni fa sapevo qual era la soluzione, oggi non lo so.

Note:
(1) Campo dei Merli, a nord dell’attuale Pristina: il 15 giugno 1389 l’esercito ottomano vi sconfisse quello serbo.
(2) Movimento politico-militare serbo caratterizzato dall’orientamento nazionalista e monarchico. Nella prima fase della Seconda Guerra Mondiale, i Cetnici, fedeli al deposto re Pietro II, collaborarono con gli Alleati; successivamente, però, l’opposizione ideologica rispetto alle forze partigiane titine fu tra i motivi del loro slittamento verso l’Asse.

TITOLO ORIGINALE: Cinema Komunisto; REGIA: Mila Turajlic; SCENEGGIATURA: Mila Turajlic; FOTOGRAFIA: Goran Kovacevic; MONTAGGIO: Aleksandra Milovanovic; MUSICA: Nemanja Mosurovic; PRODUZIONE: Serbia; ANNO: 2010; DURATA: 100 min.

 


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