Una rimpatriata tra ex studenti, un ritratto generazionale non dei più felici. La (dolce-amara) vita allo snodo dei primi trentacinque anni dell’italiano medio è un percorso malagevole, spesso in salita, praticamente mai in discesa.
Carlo Verdone non si accontenta più di far solamente ridere: con Compagni di scuola (del 1988), il regista romano differenzia il riso dal sorriso, il ridere dal sorridere, e da questa distinzione dei due verbi, (che spesso tendiamo a confondere) nasce il suo film più riuscito e sincero, dimostrandosi un regista sensibile nel ritrarre con ironica malinconia uno spaccato della realtà italiana che, a ben vedere, interessa tutti da vicino. In Compagni di scuola tutti quanti gli attori sono protagonisti, il quadro è unico. La sontuosa villa dove si svolge il raduno è la cornice (in)dorata che racchiude una dozzina di persone che, nell’arco di una serata, si rifugiano all’interno di questo contorno festoso, dove i ricordi (inizialmente piacevoli) vengono sommersi dai dubbi, le paure, le insicurezze, le insoddisfazioni, ma anche dalle sciocchezze, di alcuni dei partecipanti. E’ con questo manipolo di “perdenti eroi” che Carlo Verdone alterna momenti di ilarità a riflessioni ben più profonde, che subitamente sembrano non avere la forza necessaria per giungere alla formulazione complessa di un discorso serio, ma che lentamente e, soprattutto nel finale, sapranno invece scatenare un vortice di riflessioni al quale è quasi impossibile rimane estranei.
Uno status sociale italiano, quello rappresentato nel film, profondamente dilaniato dal luogo comune, dal denaro, dall’ambizione umana, dai falsi miti, dove sembra che nessuno degli individui presenti alla festa (dal modesto professore al politico d’eccezione, passando per la dottoressa in psicanalisi), abbia saputo in qualche modo premunirsi dal cadere in questo Maelstrom che richiama a sé tutti i peccatori, in un gorgo impetuoso, a volte mortale. Ognuno è alle prese con i propri problemi, la festa è solo l’ombra più colorata di una vita grigia, d’individui che, a metà del percorso esistenziale, hanno perduto ogni punto di riferimento. Immobili ed incapaci di lottare rimangono in attesa di chissà quale miracolo o soluzione. Una rappresentazione che sembra non lasciare spazio ad alcuna nota positiva, eppure, a ben vedere, il ruolo di Verdone dietro la macchina da presa non è soltanto quello del boia. Di fondo, ma non in sottofondo, vi è una grande speranza, che è quella della lotta continua, eterna. Di una fiducia riposta nell’essere umano che è l’esatto contrario della misantropia che in alcuni momenti Verdone palesa nei confronti di questi individui. Come a dire: “è la vita”, ma non dobbiamo lasciar spazio alla resa.
Perché l’Italia ha il viso di Carlo Verdone, un volto che può tramutare il pianto in sorriso, con la forza di continuare anche se a volte si è allo sbaraglio. E pazienza se in questi casi ci perdiamo nel fumo di una sigaretta o anneghiamo in un bicchiere d’alcool: sono modeste soluzioni (temporanee?) che confortano nei momenti bui. Ma basta una scrollata e dell’acqua gelida a lavare il volto di chi non smette di tenere gli occhi aperti su una realtà tutt’altro che accomodante. Controllando sapientemente un numero non certo banale di personaggi e dando ad ognuno il giusto spazio, la regia di Verdone è perfettamente calibrata a raccontare il tutto senza annoiare, escludendo l’ipotesi che il montaggio richiedesse delle sforbiciate. Un racconto realistico quello sceneggiato da Verdone assieme a Piero De Bernardi e Leo Benvenuti, con personaggi mai troppo caricaturali, per l’opposto, estremamente reali. Consentendo l’accezione più genuina e accomodante del termine, quasi un film neo-realistico per Carlo Verdone, che qualche anno più tardi tornerà a sondare le profondità dei sentimenti umani con Al lupo, al lupo. Compagni di scuola è un film che va visto ancor oggi con una certa urgenza e si merita sicuramente l’appellativo di film cult, per una volta, tutto italiano.
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