La mala educación: che fine ha fatto Almodovar? PDF 
di Mattia Plazio   

Non esagerare Almodóvar. Così recita il titolo assegnato da Francesco Merlo al suo commento intorno a La mala educación, comparso sulle pagine de "La Repubblica" il 7 ottobre scorso. Strano, perché a posteriori trovo esprima con rara efficacia l'effetto prodotto dalla visione dell'ultimo film del regista spagnolo, nonostante i motivi alla base della comune polemica siano figli di considerazioni di natura fondamentalmente diversa.

Stupisce, infatti, l'accanimento con il quale il giornalista, scettico verso la veridicità dell'approccio almodovariano alla realtà rappresentata, si scaglia contro "La mala educación", ultima sofferta fatica di Almodóvar, a detta sua "un film-scandalo", un crescendo bruegheliano sulle imprese maniacali dei salesiani pedofili e omosessuali, vent'anni di stupri, omicidi, ricatti, al punto che, alla fine, in una sarabanda infernale di perversioni maschili, non si capisce più se il film è contro i preti o contro i preti ineluttabilmente omosessuali o, involontariamente, contro gli omosessuali". A leggerlo fa venire voglia di precipitarsi al cinema per gustarsi il mirabolante j'accuse almodovariano contro la Chiesa cattolica e i metodi educativi, repressivi e violenti, delle sue istituzioni più rappresentative, tanto più che in proposito è stato scomodato niente meno che Luis Buñuel e la vena surrealista e anarchica con la quale ha ossessivamente affrontato l'argomento. Peccato che di quella rabbia, di quella adesione radicale e sentita, di quella vis polemica, che sarebbero dovuti essere gli ingredienti principali del cocktail esplosivo e di cui fa continuamente cenno Merlo - utilizzando termini forti come "collegi-lager", "preti infoiati", "assistenti-aguzzini" -, non esista traccia ne La mala educación. Aspetto ancora più significativo se si pensa che è stato presentato come il film più fortemente autobiografico e appassionato del regista spagnolo, una sorta di film/confessione nel quale Almodóvar affronta, forse per la prima volta in modo così diretto, i demoni del proprio passato, dando voce ai ricordi di un'infanzia trascorsa tristemente in un collegio di salesiani.

No, Almodóvar resta Almodóvar, nonostante per un momento si possa aver avuto la sensazione di un possibile, e quanto mai opportuno, rinnovamento dei temi e delle forme del suo cinema. Prova ne è che, tradite le premesse, lo spettacolo cui si trova ad assistere lo spettatore è ancora una volta quel pastiche fatto di melodramma e noir (in questo caso più noir che melodramma, come dimostrano fin da subito gli splendidi titoli di testa, dove il nero della colpa e il rosso della carnalità e del sangue si fondono insieme a comporre i poster stracciati, simbolo di vite strappate e di passioni insoddisfatte), quel labirinto di passioni nel quale, seppur indebolite, ritornano tutte insieme le ossessioni che fin dall'esordio trovano spazio nelle opere del regista della Mancia: il film nel film, il marcato anticlericalismo, le icone gay del cinema, i colori vivaci spalmati con estro e brio, gli amori impossibili, il gusto per la provocazione, i dettagli sessuali piccanti, i tradimenti, le lacrime, i tacchi a spillo, i vestiti eccentrici, le parrucche cotonate, il tutto espresso attraverso una messinscena fatta di accumulazioni barocche, associazioni visive e utilizzo di stilemi pop quali l'uso del riquadro o l'inquadratura spezzata, il cui approdo naturale è l'eccesso, inteso come categoria che forza i confini dell'ovvio, che supera le consuetudini, minacciando la tranquillità dei benpensanti.

Tuttavia La mala educación, nell'economia di un percorso artistico esuberante, estremo o comunque mai misurato quale quello del regista spagnolo, suona addirittura come un passo indietro. Non è né carne né pesce. Non possiede quella forza propulsiva, quell'ironia sanguigna, quel gusto per la farsa e per il grottesco così facilmente rinvenibili nelle prime opere del regista spagnolo - ingenue certo, ma indubitabilmente coinvolgenti -, né tanto meno lo sguardo poetico, penetrante e appassionato dei suoi ultimi due lavori, Tutto su mia madre e Parla con lei, nei quali la mistione incontrollata di generi diversi e il complesso e intricato meccanismo narrativo, anello spesso debole di molte delle opere di Almodóvar, trovano quasi magicamente un'unità e una coerenza superiori, celati come sono dietro l'intenso tourbillon di eventi e passioni che spingono l'autore/ spettatore a spogliarsi dell'abito razionale per abbandonarsi completamente alla forza spesso incoerente dei sentimenti.

L'assenza forse più grave, proprio perché elemento che, al di là degli eccessi, dei paradossi e delle cadute di stile, aveva reso apprezzabile l'intera opera del regista spagnolo, è quell'adesione partecipe, sincera ed appassionata alle vicende dei personaggi e alla materia narrata, a prescindere dalla forza dei contenuti, spesso discutibili nel loro ripetersi ossessivo e acritico. L'originalità del suo cinema e del suo approccio alla realtà rappresentata è sempre stata legata alla volontà di spingere lo spettatore "tutt'occhi" di fine secolo, abituato quotidianamente all'indigestione di immagini e alla loro interpretazione per mezzo di strumenti che si affidano esclusivamente al senso razionale, a non limitarsi a fossilizzare l'immagine (l'emozione, l'azione) distanziandosi dalla visione, ma al contrario a "penetrare" letteralmente la materia cinematografica, a sentire nel proprio corpo (più che astrarre nella mente) le coniugazioni del desiderio così come risultano articolate sullo schermo, gettandosi nello stesso gorgo passionale in cui precipitano i suoi personaggi. Il miglior cinema di Almodóvar è prima di ogni altra cosa cinema per i/dei sensi - vista, udito, tatto, olfatto, anche se il cinema non si odora e non si tocca - e di passioni autentiche, forti (Amore/Morte, Amore/Malattia), irrefrenabili.

L'avventura di Ignacio, Enrique, Padre Manolo, Juan e gli altri protagonisti de La mala educación non riesce ad appassionare perché sembra non appassionare nemmeno Almodóvar, incapace di tratteggiare con la solita maestria la psicologia dei suoi personaggi, chiusi irrimediabilmente in una fredda meccanicità di movimenti e sensazioni che paiono innaturali e poco autentiche. È la passione che manca, quell' "etica del desiderio" da applicare ad ogni costo, quella necessità di "sentire" fortemente, che è la molla che spinge all'azione tutti i protagonisti dei film del cineasta spagnolo. Alla passione si sostituisce qui il cinismo, il senso dell'utile, l'amore interessato, la menzogna, un armamentario di sentimenti contrastanti che, se portato alle estreme conseguenze, sarebbe potuto deflagrare in qualcosa di nuovo o comunque di diverso, ma che Almodóvar lascia tuttavia incompiuto e a cui, suo malgrado, non riesce a dare sufficiente spessore, ossessionato soltanto dai dettagli e dal colore degli ambienti e dalla volontà di avvolgere tutto in un clima di inopportuna levità e "leggerezza", disperdendo nelle maglie della narrazione elementi e oggetti fastidiosamente autoreferenziali.

La distanza che separa lo sguardo del regista spagnolo dalla materia narrativa (la lunga gestazione ha avuto un ruolo determinante in tal senso) scopre dunque le carte, facendo emergere d'improvviso tutti i difetti della sua ultima opera, ora svuotata della consueta carica emozionale. Liberato dall'effetto di totale empatia con i personaggi, lo spettatore si accorge tutto di un tratto dell'evidente meccanicità di un impianto narrativo che tra flashback, fiction e realtà, intreccia, spesso senza soluzione di continuità, tre diversi livelli, dando vita ad una progressione ai limiti del virtuosismo. Un sistema a scatole concentriche che usa come pretesto - salvo poi relegarlo sullo sfondo, edulcorandone i toni - il tema dello scontro con la Chiesa cattolica e le sue istituzioni (dove è tutta questa ferocia?) per poi sfociare in una storia cui Almodóvar non riesce mai a dare i tempi giusti e che alla lunga appare per quello che è: un gioco fine a stesso, un labirinto di eventi e microeventi per mezzo del quale il regista sembra volersi divertire a confondere le idee. Gli stessi personaggi, le cui sorde motivazioni disperdono il potenziale coinvolgimento in un sistema poco comunicativo, tornano ad essere semplici luoghi comuni privati della loro carica simbolica e di quell'autenticità che concorre a farne personaggi veri e non semplici macchiette: preti pedofili, gay irresistibili, registi in crisi d'identità, mamme amorevoli, tossicodipendenti con tanta voglia di vivere. Proprio in relazione a ciò che il cinema almodovariano ha sempre voluto rappresentare e all'infinita galleria di personaggi cui ha dato voce, sorprende a tal proposito dover pensare (con orrore) a Padre Manolo, colui che avrebbe dovuto essere il principale bersaglio polemico del film, come all'unica figura che per certi versi possa essere salvata, vittima e carnefice di una passione malata e impossibile.

Con La mala educación, Almodóvar sembra cadere insomma nel classico errore (vedi Tarantino nel primo episodio di Kill Bill) di chi come lui può dirsi "inventore" di un genere tutto suo (il post-melò barocco) e vantare uno stile del tutto personale e fuori dagli schemi: fare il verso a se stesso, procedendo ad una fredda, anche se divertita, accumulazione di quelli che sono i temi e le forme del suo cinema, senza preoccuparsi di dare credibilità a storia e personaggi. Il messaggio dei miei film arriva sempre diretto al cuore e agli organi genitali, disse un tempo il regista spagnolo, quasi a voler indicare la linea programmatica del suo cinema. Qui tuttavia non arriva né all'uno né agli altri, perdendosi nei rivoli di mille interrogativi disseminati lungo un percorso labirintico e fin troppo cerebrale.

 


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