Stranger than Paradise. Gioventù spiantata PDF 
Alessandro Avanzi   

1984. Non si parla del libro di George Orwell, ma dell’anno in cui Jim Jarmusch viene annoverato tra i registi più innovativi del post New Hollywood. Con l’uscita di Stranger than Paradise, il regista conquista infatti la ribalta cinematografica ricevendo la Camera d’or al Festival di Cannes ed il Pardo d’oro al Festival di Locarno. Passati quattro anni dal film d’esordio Permanent Vacation, il regista di Akron ne riprende le tracce e costruisce un lungometraggio in tre atti, se così si possono definire, attraverso una rielaborazione wendersiana del Road Movie. Un viaggio senza meta che spinge i tre protagonisti a deambulare in cerca di un nuovo motivo per vivere o meglio per muoversi un’altra volta. Sradicati alla Nicholas Ray e vagabondi Sulla strada di Kerouac, esprimono pienamente il pensiero beat molto caro al regista.

Il film racchiude in sé tutti quelli che diventeranno in seguito i topoi dello stile jarmuschiano, come la città decadente e onirica, lo straniero e la sua aspettativa nei confronti del mondo nuovo, l’incapacità dei personaggi di comunicare o di riconoscere i momenti ed i modi per farlo, il sogno come alternativa ad una realtà che è inconciliabile con il proprio modo d’essere, una colonna sonora che si confonde tra diegetica ed extradigetica e definisce il ritmo del viaggio sottolineandone significazioni altrimenti celate. Questo e molto altro è il secondo film di Jim Jarmusch, che dalle ceneri in balia del mare del defunto Nicholas Ray recupera un sentimento di dissonanza che si insinua tra i suoi personaggi ed il mondo che li circonda. Come dimenticare il viso di un Jarmusch alle prime esperienze, che alle dipendenze di Wim Wenders in Nick’s Movie, si fa carico di tutti gli sradicati del mondo bruciando un cerino di fronte alla macchina da presa, in una sorta di mistico passaggio del testimone cedutogli dal genio scomparso.

John Lurie, Richard Edson ed Ezter Balint rappresentano quello strappo nella società in cui si trovano i disillusi e gli spiantati anni ’80 che alla ricerca di nuova vita si perdono nei due metri quadrati del proprio tinello. Un bianco e nero documentaristico, e non solo questo, ci riporta alle atmosfere di Nel corso del tempo di Wenders nelle quali sia i personaggi jarmuschiani che quelli messi in scena dall’autore tedesco concorrono insieme al riscoperta delle proprie radici. Le sequenze di Stranger than Paradise sono separate da continue dissolvenze a nero, che il regista sfrutta non solo col fine di sottolineare i caratteri minimalisti della propria opera, ma soprattutto per evidenziare come la vita dei propri personaggi sia anch’essa frammentata in brevi momenti inconciliabili tra di loro.

Un’ondata di neorealismo all’italiana sembra ripercorrere la vena artistica di Jarmusch che si adopera ripetutamente in pedinamenti del reale, per dirla alla Zavattini, nei quali i personaggi attraversano uno spazio, solitamente cittadino, senza interagire minimamente con ciò che li circonda o lasciare segni del proprio passaggio. Lo spettatore, accompagnato dalla macchina da presa in questo movimento a seguire i personaggi, rimane costantemente deluso rispetto ad una conclusione narrativa della carrellata che non si rivela mai, nel rispetto di uno stile narrativamente poco incisivo. Le note di Screamin’ Jay Hawkins ci accompagnano in un viaggio da New York alla Florida, con Cleveland come tappa intermedia, in cui la sola vera azione che i protagonisti si trovano a svolgere è la fuga da sé stessi nella speranza che la prossima tappa diventi rivelatrice e portatrice di novità.

Lo spettatore lasciato a distanza si trova a dover sempre osservare le cose da un punto di vista esterno e distaccato, che non può mai coincidere con quello dei tre personaggi, ovattati nei loro pensieri e nei ruoli che essi stessi sembrano essersi assegnati. Minimal e allo stesso tempo ricco di significato il film di Jim Jarmusch si confronta con una generazione della quale anche lui probabilmente sente di far parte, che si trova in contrasto con il mondo in cui vive ed è disillusa rispetto alle aspettative di vita che si era creata. Il regista mette cioè in pellicola la rappresentazione di una gioventù che si cuce addosso i miti statunitensi senza saperli realmente sostenere, in un viaggio che la colloca sempre e comunque nel luogo sbagliato al momento sbagliato.

 


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