Ma 6-T va crack-er: la rivolta tra le immagini PDF 
Aldo Spiniello   

Ma 6-T va crack-er (1997) è un ritorno all’État des lieux (1995), allo stato delle banlieues parigine, al ribollire esplosivo di una periferia che sembra caricarsi di tutte le storture di una società sempre sul punto di disintegrarsi. E, ancora una volta, ci viene sbattuta in faccia una prospettiva non conciliante, direttamente coinvolta nello scontro. A 31 anni e al secondo film, Richet rimane a terra per raccontare ciò che conosce meglio, la vita e la rabbia dei giovani di Meaux, che trascorrono le giornate nel nulla che unisce (o separa) le anonime HLM, i condomini popolari abitati da operai e teppisti senza dio. E l’adesione ai personaggi, appena abbozzati eppur vivissimi, è totale. Corrisponde a una dichiarazione d’identità. Al punto che Richet sceglie di metterci la faccia (interpretando il personaggio di Djeff) e di chiamare al suo fianco, come co-sceneggiatore e protagonista, il giovane cugino rapper, Arco Descat C. Eppure, nonostante la presenza, l’indubbia partecipazione, Richet segue con sguardo lucido i suoi protagonisti, i giovani Arco, Malik, Mustapha e i compagni più grandi Djeff, Jean-Marie, Hamouda, lasciandoli fuori da ogni assoluzione o condanna.

Ma 6-T va crack-er
assomiglia a una (video)cronaca essenziale, dura, muta, che rifugge da ogni psicologia o sociologia, da ogni scienza umana (borghese) che ragioni in termini di normalità o devianza, adesione o eccezione. Il racconto, più che per progressione drammatica, sembra procedere per accumulo, incamerando, scena dopo scena, una violenza e una tensione crescenti, che finiscono per far esplodere, oltre che la cité, la stessa struttura narrativa. La fiction crolla sotto il peso della realtà che sottende e la storia, senza baricentro, si frantuma in mille pezzi. Ma 6-T va crack-er è un film che trasuda una rabbia incendiaria e consapevole, che collega immediatamente la realtà della disintegrazione sociale alla verità politica delle sue radici. Richet è chiaro. Il sangue che scorre nelle periferie non nasce da tensioni razziali né tanto meno dal disagio di situazioni limite. È un problema “di classe sociale e territoriale”. Assomiglia al grido di un (sotto)proletariato escluso dalla contemporaneità, dalla visione utilitaristica e funzionale delle istituzioni e dei ceti dominanti che ne costituiscono la base. E la straordinarietà della sua visione sta nel far emergere questa dimensione politica non dalla trovata narrativa della presa di coscienza di un singolo, un deus ex machina, né dalla pretesa didascalica di un’interpretazione calata dall’alto, ma dalla stessa evidenza dei fatti, dall’eloquente trasparenza delle immagini che colgono, nel vivo, i frammenti di questa quotidianità sbandata, senza via d’uscita. La necessità dello scontro politico nasce dalla dinamica nuda (strutturale verrebbe da dire) dei rapporti e dalla ripetizione sorda dell’arbitrarietà istituzionale. Per questo Richet, nel finale, suggerisce, in un loop agghiacciante, tutta l’impasse della società contemporanea, trasportando la miccia dell’insurrezione da Meaux a Garges-lès-Gonesse. Un fuoco che attraversa tutta la cintura, da un capo all’altro.

Se nelle parole dei personaggi si avverte una percezione ancora confusa dei termini dello scontro, allora è il cinema che si assume il compito di innescare la miccia, di compiere le necessarie scelte sovversive. Magari giocando sporco, ma pur sempre schierandosi apertamente, senza fraintendimenti o facili ecumenismi (Stefano Sollima avrebbe da imparare). E così, emblematicamente, i poliziotti di Ma 6-T quasi non hanno volto, sono senza espressione, definizione e contorno. Sono un distintivo, un numero, l’espressione anonima di una macchina dell’oppressione, indifferente alla singolarità dei suoi ingranaggi. I poliziotti vengono dal fuoricampo, come nella fantastica scena dell’inseguimento alla stazione. O sparano avvolti nel buio. Uccidendo, a differenza dei ragazzi, che sparano e sparano, con una furia folle, ma non riescono mai a colpirsi. Sono già i nemici invisibili di Assault on Precint 13. E, non certo a caso, al suo esordio americano Richet tradirà Carpenter (pur mantenendone intatta la lucidità politica), spostando il racconto a Detroit, la città operaia per eccellenza, e ponendo a capo dei misteriosi assalitori proprio un poliziotto corrotto, il Marcus Duvall di Gabriel Byrne. Ridefinizione contemporanea di una minaccia ‘fantasma’, che potrà essere combattuta solo da un bianco (Ethan Hawke) e un nero (Lawrence Fishburne), un uomo di legge e un criminale. 

Ma la vera bomba di Richet è un’altra. È innescata a partire dal rap (Ma 6-T va crack-er è una canzone dei Krs-One), l’immaginario ‘globale’ delle minoranze difficili ed escluse, che attraversa la terra, da un capo dall’altro. Dalle periferie degli Stati Uniti fino al chourmo di Izzo, la caldera del mediterraneo, quello scontro/incontro di linguaggi, passioni, rabbie, amori. Il rap è il testo e il sottotesto, la colonna sonora, lo sfogo, ma anche l’intricata velocità, tutta contemporanea, della lingua parlata. I ragazzi di Richet parlano rappando, ancor prima dei giovani di Kechiche ne L’esquive. E nel loro parlare già si avvertono le prime tensioni, quelle incrinature che verranno fatte esplodere da Cantet in Entre les murs, film testamento della società occidentale, della cultura del dialogo, ormai impossibile se proprio il linguaggio è divenuto il nervo scoperto del conflitto sociale, razziale, generazionale, politico. Ma il rap del cinema, per Richet, è il montaggio. Per questo arriva a quel finale mozzafiato, in cui al ritmo di una canzone, si alternano le immagini del concerto, la sparatoria nel parcheggio della discoteca e la tragedia al supermercato. Piega l’estetica videoclip, dalla sua vocazione commerciale (e quindi eminentemente mainstream) alla sua carica eversiva, alla destabilizzazione visiva del ritmo e della velocità. Eversione pop(olare).

È il montaggio la bomba che Richet fa esplodere tra le immagini e le scene. Segue i dialoghi con dei lunghi piani fissi. E poi, all’improvviso, impazzisce in un vortice di frammenti. Il montaggio è il punto di sutura, il filo rosso del senso, ma, recuperando la sua vocazione al conflitto, è anche lo scontro, l’incidente, l’evento che interrompe e rimanda altrove la visione. La sèdition c’est la solution, dice l’ultima canzone. Ma nel senso proprio dell’interruzione, della rottura del flusso. Il montaggio è un’affermazione politica, una comparazione, una differenza, una negazione. E la rivolta passa nelle intercapedini, nelle sovrimpressioni, come quella di Viriginie Ledoyen, che, da adolescente inquieta de L’eau froide diviene la fille au pistolet, la ragazza armata della rivolta, che contrappunta ironicamente la furia dello scontro (e forse non sarebbe una follia tracciare un percorso tra due registi assolutamente diversi come Assayas e Richet). La rivolta è Jacques Mesrine, è il nemico pubblico n.1, è il cinema che si trasforma e si sottrae. L’arma più dirompente contro la visione assoluta della società del controllo. 

Titolo originale: Ma 6-T va crack-er; Regia: Jean-François Richet; Sceneggiatura: Jean-François Richet, Arco Descat C.; Fotografia: Valérie Le Gurun; Montaggio: Jean-François Richet; Scenografia: Philippe Renucci, Frédéric Vialle; Musiche: White & Spirit; Produzione: Actes Proletariens, Canal+, TF1 International, Why Not Productions; Durata: 105 min.; Origine: Francia, 1997

 


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