Buried PDF 
Fabio Fulfaro   

La storia del cinema è fatta di sfide al limite dell'impossibile: fare un film in un unico piano sequenza (Nodo alla gola di Hitchcock e Arca Russa di Sokurov), girare in soggettiva come un filmato amatoriale da mandare su youtube, o in rete (The Blair Witch Project e Coverfield), provare a inventarsi un falso documentario per narrare la storia di alieni ghettizzati (District 9) o per portare alla luce le nefandezze della guerra in Iraq (Redacted). Rodrigo Cortes, regista spagnolo classe 1973, apprezzato per i suoi short films (tra tutti, Yul del 1998 e 15 Days del 2005) e per il suo primo lungometraggio (The Contestant, 2007), ha deciso di rispettare le unità di luogo, tempo e azione e di girare 95 minuti claustrofobici con un solo coraggioso attore (Ryan Reynolds, già visto in Wolverine e Ricatto d'amore) dentro una bara di legno a qualche metro di profondità sottoterra. La storia è quella di un “Contractor” (civile americano che lavora come autotrasportatore in Iraq) preso in ostaggio dai terroristi arabi e sepolto vivo da qualche parte nel deserto iracheno. La sfida sta nel tentativo di tenere in tensione lo spettatore per tutta la durata del film e non provocargli un effetto soporifero da mancanza di luce e di idee.

In realtà l'operazione risulta riuscita solo a metà. Da una parte dobbiamo riconoscere l'abilità tecnica di Cortes, che dimostra di saper usare tutti i mezzi della grammatica filmica per movimentare una situazione altrimenti statica, più teatrale che cinematografica. Diversi punti di ripresa con angoli impossibili (sono state ricostruite ben sette differenti bare di legno per lo scopo), zoommate e plongee, carrellate vertiginose, montaggio dei diversi raccordi spaziali, il gioco di illuminazione che sfrutta le poche fonti a disposizione (la torcia, la luce del blackberry, l'accendino zippo), il lavoro sul suono (il canto di preghiera proveniente da qualche moschea nei paraggi, il rumore degli elicotteri e degli aerei da combattimento, il tonfo terribile delle bombe e l'effetto sul terreno), la musica extradiegetica modello Bernard Hermann sugli stupendi titoli di testa. Anche Ryan Reynolds ci mette del suo, fornendo una delle sue prove d’attore più convincenti, soprattutto nell’alternanza tra angoscia e disperazione, tra crisi isteriche e raggelante disillusione. Dall'altra, la sceneggiatura (firmata dall'americano Chris Sparling) non riesce a supportare egregiamente tutte questi accorgimenti estetici. Ci sono momenti davvero imbarazzanti, come il colloquio via telefono con l'anziana madre affetta da demenza senile o con il datore di lavoro che lo liquida in maniera brutale, che riflettono i luoghi comuni di certi script da sit-com americana. E anche le possibili connotazioni sociopolitiche (ci sono vittime di serie A e vittime di serie Z) si disperdono nella ormai logora rappresentazione dell'arabo terrorista sanguinario o nella grottesca raffigurazione dei poteri del sistema (la menzogna eretta a sistema di controllo delle masse). È un peccato che un regista spagnolo non riesca a far passare un punto di vista più “europeo” sulla situazione in Iraq e lasci che i dialoghi si americanizzino (“tu americano, tu soldato” “sono un terrorista perchè ti terrorizzo?”) vanificando la ricerca stilistica nella regia e nella fotografia e perdendo per strada la genialità dell’idea originaria. Ed è un peccato ancora più grave non aver dato un maggiore spessore tematico a questa particolare situazione claustrofobica che mima paradossalmente quella dello spettatore rinchiuso nel ventre materno della buia sala cinematografica, impossibilitato a uscire dalla trappola dell’illusione di realtà.

Restano comunque dei bei momenti, come l'incipit nell’oscurità totale con i suoni e i rumori di un risveglio da incubo, e il finale che effettivamente spazza via i dubbi sulle menzogne e le ingiustizie di tutte le guerre. Per un film girato in soli 17 giorni con il budget irrisorio di 3 milioni di dollari, il risultato può dirsi più che soddisfacente. Resta però l'amaro in bocca per un prodotto finale che vola molto basso finendo incastrato nello stesso meccanismo claustrofobico che ha contribuito a creare. Se durasse 30 minuti in meno Buried sarebbe un corto fenomenale. Invece così come è confezionato, e sentendo certi dialoghi, la voglia di scappare dal buio della sala e rituffarsi nella luce della vita reale è quasi irrefrenabile.

TITOLO ORIGINALE: Buried; REGIA: Rodrigo Cortés; SCENEGGIATURA: Chris Sparling; FOTOGRAFIA: Eduard Grau; MONTAGGIO: Rodrigo Cortés; MUSICA: Víctor Reyes; PRODUZIONE: USA/Spagna; ANNO: 2010; DURATA: 95 min.

 


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