Dalla profondità di un paesaggio western sopraggiungono due cowboy. Scendono da cavallo e uno chiede all'altro: "di' un po', Matt, tu che tipo di revolver porti?"; Matt, visibilmente imbarazzato, lo guarda perplesso, si tocca il naso e gli porge la sua pistola. Ma l'altro, nonostante abbia in mano l'arma di Matt e la stia soppesando, incalza: "se vuoi vedere il mio…", porgendo all'amico il suo, di revolver. Raccontato così, questo segmento pare estratto da qualche parodia americana dei tardi anni Settanta, quando la solitudine del rude uomo del west veniva messa alla berlina con beffardo sarcasmo e feroce ironia camp. In realtà si tratta di un momento di Il fiume rosso di Howard Hawks, storico film western di conflitti edipici e grandi transumanze, nel quale la separazione del westerner dalla componente femminile è sublimata in amicizie eroiche e intensamente (a volte fin troppo) virili.
Sono anni in cui l'omosessualità al cinema è occultata o proposta metaforicamente: Rock Hudson – l'attore che forse eseguirà il coming out più inaspettato e scioccante – è presentato sempre come personaggio bello e vigoroso nei melodrammi sirkiani e nelle commedie con la bionda Doris Day, mentre a Hollywood si vocifera che Randolph Scott e Cary Grant vivano insieme, ma solo per unire le loro forze di scapoli impenitenti, ci mancherebbe altro. Ma l'elemento gay del cinema hollywoodiano (e non solo), perso nel periodo d'oro dei generi cinematografici tra i rivoli di tonalità narrative sempre accennate ma mai completamente sviluppate, nel corso degli anni, e approfittando della recente deriva dei generi, è uscito allo scoperto diventando il tema fondamentale di molte pellicole e la disposizione privilegiata attraverso cui molti dei più grandi registi in circolazione vedono, registrano e rappresentano il mondo.
Roberto Schinardi, nel suo libro Cinema gay, l'ennesimo genere, edito nella collana "Il cinema e le idee" diretta da Fernaldo Di Giammatteo per la casa editrice Cadmo, sostiene che si tratta di un vero e proprio nuovo genere cinematografico a se stante, dotato di peculiarità d'intreccio e caratterizzazione appropriata dei personaggi, prescindendo dall'ambiente, ossia il terzo elemento fondamentale per la riconoscibilità di un genere, secondo quanto affermato dagli studiosi dell'argomento (se si eccettuano film come Cruising di Friedkin o Il vizietto di Molinaro e i suoi cloni).
L'obiettivo di Schinardi non è tanto di giustificare teoricamente l'esistenza di un genere propriamente gay, quanto, piuttosto, quello di operare una ricognizione ad ampio raggio che si premuri di segnalare i prodotti realizzati con una sensibilità differente da quella del mondo fallocraticamente eterosessuale, citando e raccontando pellicole molto diverse tra loro, molte delle quali viste nei più importanti festival dedicati a tale realtà, e spiegando come le produzioni a tematica omosessuale si strutturino per penetrare all'interno dei generi codificati dai tempi del cinema classico. Unendo chiarezza espositiva, tenacia da cinefilo incallito pronto a sfidare qualunque maratona festivaliera e profonda conoscenza della materia trattata, Schinardi permette la comprensione di un universo che è molto meno distante dalla produzione mainstream di quanto possa apparire di primo acchito (e molto spesso ne fa parte), ma soprattutto consente un excursus variegato (ed ordinato, cosa che non guasta) all'interno di varie genìe pronte all'ibridazione e al sincretismo. Un valido e gradevole strumento per chiunque, utile per vedere un certo tipo di cinema con occhio diverso, più avveduto e maggiormente disposto a percepire le tonalità multicolore che effonde.
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