C'era una volta in Anatolia: il metodo del discorso PDF 
Aldo Spiniello   

C'era una volta in Anatolia. L’inizio è quello di una favola. Giustamente. Qualunque sia l'intento, la materia è sempre con la forma del racconto che deve fare i conti. Il che cosa non può prescindere dal come. Ed è evidente come proprio questo sia il problema fondamentale dell’ultimo film di Nuri Bilge Ceylan (Uzak, Il pensiero e l’amore, Le tre scimmie): individuare una strategia narrativa che sappia far convivere l'apparenza di un'indagine poliziesca, fatta di lungaggini, giri a vuoto, rallentamenti burocratici, con un'altra sostanza, più sfuggente e inafferrabile, fatta di eventi e sentimenti che restano altrove, in un fuoricampo confuso, inconoscibile.

Ecco, nell'apparente coincidenza tra il tempo del discorso e il tempo della storia, com'è possibile che ci sia un vuoto, un buco imprevisto nella narrazione, una domanda irrisolta? Semmai, nella lenta dinamica di Ceylan sarebbe ipotizzabile il punto morto, non certo il punto oscuro. Nell'estenuante lunghezza della ricerca notturna di un cadavere sepolto chissà dove, è proprio evidente il desiderio di non perder nulla, di star all'erta, in attesa dell'evento significativo, anche a costo di smarrirsi dietro le chiacchiere innocue, "l'irrilevanza del quotidiano". Ma il problema è che sempre di giri a vuoto si tratta. Perché, per quanto qualcuno possa affannarsi a riconoscere la verità, la posizione e i fatti, il racconto non riesce mai a coincidere con la realtà. A meno che non accetti la necessità di durare quanto la realtà stessa. E sarebbe ancora, in ogni caso, una prospettiva, uno sguardo fin troppo parziale. Per ricostruire la Storia tutt'intera occorrerebbe la somma delle storie, cioè tanti punti di vista quanti sono quelli che l'hanno vissuta, fatta, agita. Occorrerebbe per lo meno un tempo doppio, quello del racconto che si somma a quello dell'azione, l'addizione di uno sguardo, di un'interpretazione sul fatto. E poi, ancora, l'addizione di un'ulteriore interpretazione, fino alla piena, decisiva ricomposizione del quadro. In effetti, è come se il rapporto da considerare non fosse più tra il tempo del discorso e quello della storia, ma tra altri due termini, tra il discorso e il segreto, il lato oscuro, anonimo, della Storia, cioè quegli infiniti percorsi personali che s'incrociano e si affastellano, sino a riempirne ogni spazio, ogni vuoto, ogni istante, sostanza misteriosa e inafferrabile. Potremo seguirne e riconoscerne uno, due. Ma il resto rimarrà inconoscibile, irraccontabile. L'enunciazione si perde nell'enunciato, perché coglie l'evidenza delle cose, ma ne manca la profondità, la pienezza. Perché, in fondo, sommare tempo a tempo non riesce a ridare il tutto: operazione che presupporrebbe un tempo spiegato, posizionato nello spazio e quindi chiaro nella sua estensione, nel corpo e nei confini. Ma il tempo si fa (e si disfa) incessantemente. È durata di corpi in accrescimento e caduta, limite labile tra un prima e un dopo, riposizionabile, sfuggente.

Che Ceylan sia il creatore, quindi abbia già chiari nella mente i percorsi e gli accidenti, poco importa. Perché, in quella triangolazione strana (del cinema e del racconto), la partita con la verità e il rimosso si gioca anche tra il testo e lo spettatore. E ci troviamo di fronte a una doppia negazione. Da un lato ci viene negata la ragione stessa del poliziesco, ridotto a poco più di una parvenza, dato che sin dall'inizio ci viene detto chi è il colpevole. Dall'altro, ci sfugge proprio ciò che più ci interessa (ci riguarda): la donna che conosceva il momento della propria morte era la donna del procuratore? E qual è la colpa che macchia il viso del dottore? Colpa certa, se stiamo all'evidenza simbolica dell'immagine, ma passata o futura, ipotetica o reale, penale o morale (due categorie che, ovviamente, sfuggono alla coincidenza)? Alla fine, è la sceneggiatura stessa a disegnare i suoi limiti, la sua vanità. Ed è una dichiarazione di resa, forse, visto che, aldilà della cura formale dell'immagine, i campi lunghi mozzafiato, i piani sequenza estenuanti, i magnifici giochi di luce "naturale" (ottenuti con l'ausilio di un pallone d'elio), tutti i possibili riferimenti simbolici (la realtà della Turchia contemporanea?), gran parte del fascino del film si fonda proprio sulle strategie del racconto, sulla sceneggiatura (dello stesso Ceylan, della moglie Ebru e di Ercan Kesal, che, tra l'altro, interpreta il ruolo del mukthar del villaggio in cui si ferma la compagnia). Sceneggiatura, per di più, ispirata a un fatto reale, un caso d'omicidio che coinvolse Kesal proprio ai tempi in cui era davvero mukhtar. Affastellamento di vita e finzione, che mostra, ancora una volta, come il destino del cinema sia quello di arrivare sempre dopo, come una ripresa precaria del mondo e delle cose.

Il cinema non ritrova la realtà, semmai la scopre in deperimento, non mostra la carne, ma la sua decomposizione, ovvero i segni della trasformazione operata dal tempo. Il cinema arriva a cose fatte. Non salva né scongiura. Semmai può provare a riallacciare qualche nodo della storia, assumendo il rischio di un giro a vuoto, di una deriva, di una deviazione. L’essenza delle cose non si ritrova nella frase piena, nell’evidenza del fatto, ma emerge per rifrazione, come qualcosa che si nasconde nell’opacità confusa degli eventi, nell’oscurità del non visibile e solo attraverso questa oscurità fa capolino, per suggerimenti, ipotesi, azzardi, folgorazioni, confessioni parziali, parole rotte, frasi spezzate, immagini imperfette. Ecco: il cinema di Ceylan non individua, non registra. S'immerge nel fondo indistinto che circonda le anime e il mondo, per provare a indovinarne i confini sfumati, a farne emergere ancora una volta un brandello. Il cadavere riemerge dalla sua sepoltura, si lascia ‘prendere per un orecchio’, così come il volto splendido, abbagliante della figlia del sindaco appare dal buio, come un mistero folgorante di bellezza. Lo svelamento è un venir fuori, la verità è un estrarre di nuovo dal buio della morte e dell’oblio. Inevitabilmente, ciò che si recupera da quest’immersione è qualcosa di meno, meno vivo e meno pieno. E basta un granello di terra nella trachea a smontare l'impalcatura delle congetture, a scompaginare le direzioni di senso. Il fallimento è più che una minaccia. E ogni ostacolo suggerisce una rinuncia, un silenzio complice, un occultamento delle prove. Forse è questa la vera colpa, la macchia di sangue. Eppure Ceylan non rinuncia. Manca la verità, ma ci lascia questo discorso sul metodo, o meglio questo metodo del discorso. Il cinema come procedimento gnoseologico abortito, come ricerca precaria, ma continua. Non porterà a nulla forse. Ma nel movimento, nello sforzo del gesto, quanta meraviglia, quale luce può ancora dischiudersi?

 


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