“L’ira di Bond” sarebbe un ottimo sottotitolo per questo secondo capitolo del nuovo 007 targato Daniel Craig. Il film inizia, con una strettissima continuity, esattamente dove Casino Royale era terminato, e lancia il celebre agente al servizio di Sua Maestà in una missione che il capo del MI6 vorrebbe di indagine sulla nuova e potente organizzazione segreta criminale, e che Bond invece intende come vendetta, violenta e spietata. 007 si mette sulle tracce di un nuovo piano per impadronirsi di alcune delle ricchezze del pianeta (il progetto "Quantum of Solace"), in un inseguimento senza pietà e senza sosta, con un unico obiettivo fisso negli occhi: trovare un volto su cui sfogare l’ira per la morte dell’amata Vesper di Casino Royale.
Il regista Marc Forster (noto al pubblico italiano soprattutto per Neverland), investito del difficile compito di non far rimpiangere i meriti del precedente capitolo, degrada l’operazione di restyling di 007 nel solito action movie tout court. Non pone alcuna pausa tra inseguimenti, lotte, esplosioni, e adopera tanto pretestuosamente la macchina da presa da far sorgere il dubbio che molte inquadrature siano state scelte solo per il gusto di averne una, due, tre o chissà quante in più, entrando così di diritto nella schiera di quelli che John Carpenter chiama shooters: quei registi privi di un’idea della regia che includa una scelta ragionata del montaggio e della posizione della m.d.p., che quindi hanno con essa pressappoco lo stesso rapporto che un maschio ha con il proprio organo sessuale nei difficili anni dell’adolescenza. I Michael Bay di questo mondo d’altronde fanno bottino pieno al botteghino. Ci sono naturalmente delle ragioni piuttosto chiare per cui, nel 2008, un nuovo Bond si sporchi le mani, sputi sangue e ne faccia sputare, perché in breve la smetta di essere l’eroe-damerino che ha sempre avuto tratti più in comune con il mondo dei fumetti (d’antan) che con altri referenti del grande schermo (d’azione e non). Ovvero: per essere finalmente al passo dei tempi, spogliandosi così di ingombranti quanto improbabili gadget finto-tecnologici (penne che sparano, ecc…), di battute trite da maschio alpha sempre pronto ad oggettivare la donna, per abbracciare invece la lotta corpo a corpo che tanto meravigliò nel primo rullo (il flashback in b/n) di Casino Royale.
I rischi insiti in questa politica di adattamento di Bond al XXI secolo si attualizzano però proprio in questo Quantum of Solace, fiinendo tuttavia per coinvolgere il protagonista in sequenze senza fine di azione (in cui ci si avvicina pericolosamente al limite del ridicolo), senza dare un attimo di requie per approfondire un personaggio, chiarire il plot, o anche solo per dare il tempo allo spettatore di godere di una carrellata, di una panoramica. 007 può apparire così troppo simile ad un qualsiasi Bourne, un qualsiasi action hero dal bicipite gonfio e lucido e di poche parole (ma poche parole che contano…). Stupisce, a questo punto, scoprire che gli autori della sceneggiatura sono gli stessi di Casino Royale (e tra questi c’è un certo Paul Haggis…), che pur essendo stati molto abili nel film precedente (diretto da un concreto Martin Campbell) ad introdurre nella saga bondiana azioni mozzafiato e modernissime, avevano lasciato sempre il tempo di farla respirare aprendo ellissi di approfondimento psicologico del personaggio Bond, che sono state forse la grande novità del Bond/Craig: quelle che lo hanno reso un essere umano a tutto tondo, e non più una sagoma bidimensionale da far muovere sullo sfondo di paesaggi esotici, ragazze seminude, tavoli da gioco, sempre con un sorriso furbo-troppo-furbo stampato in faccia mentre butta lì una battuta arguta-ma-non-così-arguta, di cui tutti ridiamo non perché faccia ridere ma solo perché riconosciamo il codice in cui siamo stati calati (quello un passo più in là dei detective che chiamano le ragazze “dolcezza” e dei reporter che hanno per le mani “un pezzo che scotta”). In entrambi i film Bond si toglie i pesanti vestiti di un secolo lasciato alle spalle, e guadagna dinamismo e credibilità. Ma l’errore in cui cade Forster in questo film è di dimenticare che l’ira di Bond è nel suo cervello, nelle sue paure tutte umane (per questo il rapporto madre/figlio che viene riconfermato anche in Quantum con M/Judi Dench è una delle cose migliori della pellicola). Perciò non sottolineare, ad esempio, come il personaggio di Camille (Olga Kurylenko) sia in realtà un doppio dello stesso Bond è un peccato enorme, un'occasione sprecata per mostrarci l’abisso dietro Bond, l’abisso dietro a tutti gli uomini che si spingono al punto di non provare più alcuna pietà.
Quantum of Solace rischia di far sbandare 007 nell’universo di serie zeta dei film di vendetta (e il più grande spauracchio qui è Van Damme). Non a caso le sequenze che più rimangono impresse non sono tanto le mirabolanti performance atletiche di Craig, quanto quelle in cui il fil rouge della psicologia del nuovo Bond viene ripreso, come quando lo si vede sbarazzarsi del cadavere di un amico in una notte sporca di Haiti, gettato via – come roba vecchia, inutile, senza un ripensamento – con la stessa raggelante praticità con cui la scomparsa dell’amata Vesper nel finale di Casino Royale era stata liquidata con la frase “La puttana è morta”. Entrambe le sequenze gelano il sangue dello spettatore, entrambe squarciano la patina di finzione che ricopre molti film d’azione, tanto più perché ci mostrano un eroe indeciso, che non riesce cioè a scegliere tra il dovere e i sentimenti, e che nell’immensa recita che lo muove dall’inizio sino alla fine (l’inganno che lo vuole agente al servizio del suo paese quando quello che realmente persegue è la sua privatissima vendetta) rifiuta ogni traccia di umanità solo per riaffermare a se stesso il più umano dei sentimenti: l’amore.
TITOLO ORIGINALE: Quantum of Solace; REGIA: Marc Forster; SCENEGGIATURA: Paul Haggis, Neal Purvis, Robert Wade; FOTOGRAFIA: Roberto Schaefer; MONTAGGIO: Matt Chesse, Richard Pearson; MUSICA: David Arnold; PRODUZIONE: Gran Bretagna/USA; ANNO: 2008; DURATA: 106 min.
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