Sottodiciotto 2012 / Sandrine Bonnaire. Davanti e dietro la macchina da presa PDF 
Elisa Mandelli   

Le Soleil me trace la route, è il titolo del libro che Sandrine Bonnaire ha pubblicato nel 2010, una conversazione con due amici giornalisti (Tiffy Morgue e Jean-Yves Gaillac) in cui racconta della sua infanzia, della sua famiglia, del suo esordio in Ai nostri amori di Maurice Pialat (1983), e del passaggio dietro la macchina da presa con il documentario Elle s’appelle Sabine, prima prova registica cui si è aggiunto il film di finzione J’enrage de son absence (2012). Ed è davvero luminosa la carriera di questa enfant prodige del cinema francese, apparsa per la prima volta sullo schermo a soli quindici anni con un’interpretazione che le è valsa il César come miglior attrice emergente, e da allora chiamata da alcuni dei più importanti cineasti contemporanei a dare corpo e anima ai loro personaggi. Vera e propria icona cinematografica per la giovane generazione francese degli anni Ottanta, Sandrine Bonnaire ne ha incarnato in modo schietto e autentico le ansie e il disagio, con ruoli come quello di un’adolescente tormentata e ribelle nel film di Pialat, di una vagabonda solitaria ed enigmatica in Senza tetto né legge di Agnès Varda (1985) o della giovane peccatrice Mouchette in Sotto il sole di Satana (1987). Altri cineasti ne hanno portato alla luce tutta la sensualità, facendone l’oggetto del desiderio del Daniel Auteil di Qualche giorno con me (Claude Sautet, 1988) e soprattutto del tormentato Monsiuer Hire (Michel Blanc) in L'insolito caso di Mr. Hire (1989, di Patrice Leconte, per cui nel 2004 reciterà di nuovo in Confidenze troppo intime). Per Chabrol ha interpretato Il buio nella mente (1995) e Il colore della menzogna (1999), e per Rivette è stata una straordinaria Giovanna D’Arco (Parte I: Le battaglie; Parte II: Le prigioni, 1994), rivelando una volta di più, dietro la sua figura apparentemente fragile e delicata, una personalità forte e decisa.

Se la sua presenza davanti all’obiettivo, che sia di primo piano o marginale, è sempre capace di lasciare il segno, Sandrine Bonnaire ha dimostrato di sapersi imporre anche stando dall’altra parte della macchina da presa. Nel 2007 ha girato Elle s’appelle Sabine, film documentario che, a partire dalla difficile storia di cure sbagliate subite dalla sorella autistica, lancia un risoluto atto d’accusa contro le carenze nelle strutture sanitarie e assistenziali. “Un atto politico”, come lo definisce la regista, eppure denso di affetto e partecipazione come solo un’esperienza che affonda nella storia personale sa essere. Un senso di empatia e di profondo rispetto per i personaggi, per quanto essi possano essere alla deriva, traspare anche in J’enrage de son absence, dove di nuovo l’autobiografia è la scintilla che fa scattare l’impulso creativo: ispirato a una persona realmente conosciuta dalla regista, Jacques (William Hurt) è un uomo incapace di elaborare un lutto subito dieci anni prima, quello del figlioletto morto in un tragico incidente stradale. Tornato dall’America a Parigi per i funerali del padre, incontra la sua compagna di allora, Mado (Alexandra Lamy), ora risposata e madre di un bambino di sette anni. Sarà proprio quest’ultimo a colmare il vuoto che Jacques porta tuttora dentro di sé, in un legame affettivo che si rinsalda man mano nella buia umidità di una cantina.

Se la filmografia della regista è ancora esile, quella, così ricca e importante, dell’attrice è tutt’altro che dimenticata. Non a caso, nei film che ha diretto si riaffacciano molti dei temi che hanno attraversato con più insistenza la carriera dell’interprete-Bonnaire. La famiglia e il rapporto tra genitori e figli, innanzitutto. Centrale tanto in Elle s’appelle Sabine che in J’enrage de son absence, esso è uno dei motivi che ha segnato più a fondo il percorso dell’attrice/regista, fin dai suoi primi lavori con Pialat. Figura paterna nella finzione (è il padre di Suzanne in Ai nostri amori) e nella vita professionale, il cineasta ha rappresentato per la giovane Sandrine un’insostituibile guida in un mondo che rischiava di fagocitarla, come lei stessa non si stanca di ripetere. Eppure, se le giovani donne di cui l’attrice ha ricoperto il ruolo erano spesso in conflitto con la propria famiglia, come la diciottenne Manon di La puritana (Jacques Doillon, 1986), nelle pellicole da lei dirette il nucleo familiare diventa invece il luogo in cui cercare di ricomporre i conflitti, pur nelle difficoltà e nelle inevitabili contraddizioni. Per Sabine le sorelle, e Sandrine in particolare, rappresentano quel sostegno che le strutture sanitarie non hanno saputo dare, ed è un modello di aggregazione familiare quello proposto dalla comunità (una casa-famiglia, appunto), in cui la donna ha finalmente trovato la serenità. Ugualmente, lo sgretolamento nel nucleo familiare in seguito alla morte del figlio è probabilmente una delle cause per cui Jacques non ha mai superato il lutto, ed è proprio nella nuova famiglia dell’ex compagna che trova una seppur momentanea (e per gli altri potenzialmente disgregante) consolazione.

Il corpo, la sua presenza mai neutra, capace di segnare a fondo ogni scena in cui appare, è un altro dei motivi che segnano le due facce della carriera di Sandrine Bonnaire. Dotata fin dalle sue prime apparizioni di un’energia ruvida, naturale e istintiva, l’attrice si impone da subito per una fisicità che, a prima vista esile e minuta, sa farsi urgente, quasi impetuosa. Una figura che diventa man mano più matura, consapevole della propria forza seduttiva (L'insolito caso di Mr. Hire ne è l’emblema), fino a scoprirsi più leggera in una pellicola come Mademoiselle (Philippe Lioret, 2001). Il corpo dell’attrice/regista rimane una presenza concreta, palpabile, anche nel momento in cui esso si sposta dietro la macchina da presa. Così, Elle s’appelle Sabine è ripreso da uno sguardo tutt’altro che oggettivo e disincarnato: la sorella che filma è presente quasi quanto quella che viene intervistata, a formare i due poli di una relazione che è uno degli aspetti più riusciti e coinvolgenti della pellicola. Nello stesso modo, se J’enrage de son absence sembra segnare la rinuncia definitiva a far apparire il proprio corpo sulla scena, la Bonnaire sceglie come protagonista un’attrice, la bionda Alexandra Lamy, che tradisce immediatamente la propria somiglianza con lei. Quasi l’ennesima trasformazione di una figura capace di reinventarsi in continuazione restando più che mai fedele a se stessa.

 


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