Elementare, Watson. A parte il fatto che in oltre due ore di film il più celebre dei detective non si rivolge mai al suo aiutante con la sua famosa frase, è elementare la scelta che sta alla base di questo Sherlock Holmes. Prendere una famosa figura letteraria made in Britain ultimamente poco sfruttata al cinema, rinnovarla e renderla un marchio, una franchise da blockbuster in grado di battersi (e vincere) al botteghino con veri e propri film d’azione. Perché in fin dei conti di questo stiamo parlando.
Guy Ritchie ringiovanisce il suo Sherlock Holmes (come aveva fatto un film degli anni Ottanta, Piramide di paura) e, pur lasciandolo nella sua Londra vittoriana (a quel tempo in costruzione), ne fa un misto tra James Bond – esempio lampante di franchise duratura – e una rockstar tormentata. E ne fa soprattutto un uomo d’azione, uno che mena, come vediamo in una delle prime sequenze, degna di Fight Club. La storia, scritta dagli sceneggiatori pescando nell’immaginario e negli scritti di Sir Arthur Conan Doyle, ha a che fare con il misterioso Lord Blackwood, dedito a riti satanici e ben presto arrestato, condannato a morte, giustiziato, e poi risorto il terzo giorno o giù di lì. Toccherà a Holmes e al fido Dr. Watson, qui assurto al ruolo di co-protagonista, scoprire cosa c’è dietro. Per Guy Ritchie si tratta di un ritorno alle origini, a una materia in cui sembra trovarsi perfettamente a suo agio. Quasi che Sherlock Holmes fosse un ideale prequel dei suoi gangster movie sgangherati: nei bassifondi della Londra d’epoca può giocare a piacimento con le facce da ceffi di cui è solito infarcire i suoi film. E con il ralenti. In questo senso Ritchie ci regala quella che è forse l’unica vera “idea” del film, quella che riesce a fondere l’azione con la proverbiale logica del detective: Ritchie ci mostra prima l’azione di un combattimento al ralenti, in modo da farci ascoltare dalla voce di Holmes tutte le sue deduzioni, che lo porteranno a colpire l’avversario in un certo modo (è come se il protagonista immaginasse in anticipo lo scontro), poi ci mostra il combattimento vero e proprio, la stessa scena di prima ma a velocità normale.
Un’idea questa che Ritchie, forse per il timore di stancare, abbandona ben presto. Il problema è che non ne trova un’altra. E così, da un lato continua con altri ralenti e virtuosismi fini a se stessi, dall’altro non riesce mai ad amalgamare l’azione con la parte dedicata alla detection. Con il risultato ovvio che è la prima a prevalere sulla seconda. Ed è il colmo che in un film su Sherlock Holmes l’investigazione non avvinca. Così ben presto si perde interesse per la storia. Il pubblico in sala sembra divertirsi, ma lo fa per cadute e scazzottate, un po’ come se stesse assistendo a un film con Bud Spencer e Terence Hill. A proposito, la coppia Robert Downey Jr./Jude Law, rispettivamente Holmes e Watson, funziona, con ottimi tempi recitativi e giochi di sguardi, ma è sprecata da uno script che fa acqua e non decolla mai. Guy Ritchie, ormai libero dalla definizione di Mr. Madonna, si sta riprendendo la carriera, ma continua ad essere un regista molto sopravvalutato: farebbe bene a preoccuparsi più di far arrivare qualcosa al pubblico che di far vedere quanto è bravo. I suoi film continuano a rimanere freddi esercizi di stile, a non comunicare nulla. Così il suo Sherlock Holmes potrebbe anche andare, basterebbe chiamarlo in un altro modo e non con il nome del personaggio di Conan Doyle: che ne dite, ad esempio, di Holmes e Watson pazzi scatenati, per citare il titolo italiano del suo primo film?
Intanto, un dialogo sul Professor Moriarty anticipa l’arrivo dell’immancabile sequel, con l’entrata in scena dell’acerrimo nemico (come faceva Batman: Begins con il Joker). La franchise è lanciata, l’operazione è compiuta. Elementare, Watson.
TITOLO ORIGINALE: Sherlock Holmes; REGIA: Guy Ritchie; SCENEGGIATURA: Michael Robert Johnson, Anthony Peckham, Simon Kinberg; FOTOGRAFIA: Philippe Rousselot; MONTAGGIO: James Herbert; MUSICA: Hans Zimmer; PRODUZIONE: Gran Bretagna; ANNO: 2009; DURATA: 134 min.
|